SUFJAN STEVENS – Houston 11 maggio, 2015, Jones Hall

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SUFJAN STEVENS – Houston 11 maggio, 2015, Jones Hall.

de Il Direttore

Dicono che la Main Street di Fredericksburg, caratteristica cittadina del Texas, incastonata fra le pieghe dolci della Hill Country, sia cosi estesa che, una volta che ti trovi a metà strada, fra i suoi due lati, ti sei già dimenticato perché avevi pensato di attraversarla. Tipiche esagerazioni texane dove il bello, si misura in modo entusiasta in unità di grandezza che lascino necessariamente a bocca aperta. Mi piace pensare che, quando Sufjan Stevens abbia pensato a una manciata di canzoni sul Texas, come parte del suo impervio progetto di musicare ogni Stato d’America, abbia avuto uno scatto di panico e gettato definitivamente la spugna, proprio pensando alla Main Street di Fredericksburg. Se non sbaglio, dichiarò proprio che, fra tutti gli Stati che avrebbe dovuto provare a descrivere in musica, il Texas era quello che lo metteva più a disagio. D’altra parte Sufjan è uno che sta bene solo quando sa di avere tutto sotto controllo. Come i compagni secchioni che però sono anche i nostri migliori amici. Non quelli con un centimetro di lenti da vista e un’incapacità congenita di rapportarsi con un mondo che sia altro da quello che studiano per ore, chini sui libri. Non quelli. Piuttosto i nerd che riescono, per dono dannatamente quasi divino, a essere sempre primi o quasi in classe ma hanno anche il pregio di esprimere la propria visione del mondo e condividerla con noi che gli stiamo intorno. Finiamo per perdonare il loro arrivare sempre e comunque primi. Siamo cresciuti insieme e ci siamo affezionati. Sappiamo che le loro vittorie rappresentano il loro limite congenito nel condividere completamente le nostre pene eroiche. Noi saremo ricordati per quell’unico trionfo, in un mare di sconfitte, loro non avranno mai il bacio della redenzione. Il loro controllo sulle proprie cose gli fa sempre tirare indietro il piedino all’ultimo momento. La loro congenita impreparazione a rischiare fino in fondo del proprio, li limita nell’abbracciare la fisicità imprevedibile del mondo. Sufjan è quel tipo di nerd, che preferisce pianificare a tavolino, imbrigliarsi nella progettualità e aspirare a quei traguardi alti che sono suoi di diritto. I suoi superlativi sono più concettuali che eroici. I suoi piaceri, più letterari che fisici. Eppure quest’uomo ha provato a riscrivere la Storia dell’America in musica, prendendo spunto dai suoi archetipi moderni più tipici e riconoscibili. Ha abbozzato il progetto, ma poi ha lasciato perdere quando ha capito che non ce l’avrebbe fatta mai. Ha alzato bandiera bianca, dopo un bilancio di pro e contro, piuttosto che immolarsi in un’impresa consumante, nell’era delle sintesi. Meglio essere saggi che pazzi. Eppure ci ha provato ancora, fra sinfonie di autostrade e odi a improbabili robot, con la mente pulsante di idee, per lo più rivelatesi incomprensibili. Non credo che Sufjan abbia sofferto per questo, circondato comunque dalla pletora di ammiratori eco-sostenibili da nuovo millennio, hipster con barba folta e curata e webzine comunque riconoscenti. Sufjan non ha sofferto e ha coccolato il proprio genio. Ha imbottito di fumetti, gadget e riferimenti new pop le sue ricerche, per mirare ai pieni voti, e si è sicuramente detto che era il mondo a non aver capito la portata delle sue ambizioni. Insomma, era tutto pronto per prepararci, noi anelanti il genio imperfetto e sanguinante di gloriose sconfitte, a distruggere di nuovo Babilonia e gridare contro il bello che avanza, inesorabile. Poi Sufjan ha scartato. Come quegli adorabili Nerd, che in fondo a una sfilza di otto nei compiti in classe, mentre noi arrancavamo aggrappati a sufficienze risicate, ci tendevano la mano, per mostrarci le loro ferite, Sufjan ha scartato. Carrie & Lowell guarda a quegli stessi fast food e supermarket, a quelle stesse cucine con il barattolo di burro di arachidi abbandonato sul tavolo, a quegli stessi pomeriggi sereni alla partita di baseball, a cui Sufjan aveva provato per anni a dare sostanza metafisica. Carrie & Lowell accarezza quei luoghi finalmente con dolcezza, evocandone i fantasmi che li hanno abitati. Come Mark Kozelek ha fatto con Benji lo scorso anno, il nuovo disco del cherubino racchiude l’America in un pugno di memorie che sta fra lo sguardo triste del cecchino di American Sniper  e i dodici anni del protagonista di Boyhood di Richard Linklater. L’America salvata dal senso di perdita di un ragazzo che non saprà mai urlare il suo dolore al mondo e quindi lo contestualizza. La madre come nuova figura di culto del. rock’n’roll. Sostituita la ribellione che non trova più eserciti di cuori pronti a farsi travolgere, con la carezza dell’unica persona di cui mai si potrà mettere in dubbio l’affetto. Sufjan, l’ex- cherubino, si presenta al pubblico da solo con le sue canzoni sussurrate alla madre, sormontato da una serie di losanghe imponenti, dove verranno via via proiettate le sue immagini d’infanzia e fermo immagine della costa dell’Oregon, dove ha attraversato la sua infanzia. Sembra di stare in una di quelle chiese finto gotico di tante città d’America. Una di quelle in cui un adolescente Sufjan provava a muovere i primi passi fra le note, cantando la sua fede incerta al signore. E’ accompagnato da quattro elementi, e si capisce da subito che il ragazzo, come sempre, è preparato. Lo spettacolo (perché di questo si tratta) viene governato dall’ex-cherubino, fra giochi di luce, fotogrammi di bambini e madri e chiaro scuri acustici ed elettronici. Perché, nonostante la veste intima delle canzoni del disco nuovo, mai Sufjan rinuncerebbe a provare a guardare oltre. Anche maldestramente, come nella resa astrusa di All Of Me Wants All Of You, che regala l’intensità del disco a un vestito sintetico che non sembra andare da nessuna parte. Ma è un attimo. Basta che arrivi 4th Of July ed è come rivedere il ragazzino di Guardians Of The Galaxy che lascia la mano della madre morente all’ospedale, per racchiuderne il ricordo nell’intimità di un’audio cassetta di canzoni anni settanta. Se il mondo è un mostro, il nostro amuleto ci renderà invincibili. C’è chi si fa venire gli occhi lucidi, ma sempre con compostezza. Sufjan intanto armeggia fra banjo, chitarra, piano e ogni tanto passa la mano fra le tubular bells sotto la tastiera. Meno piume e cori che con Illinois, ma comunque la stessa voglia di essere primo della classe. Eppure, saranno i fantasmi di Carrie & Lowell, sarà quella perfetta combinazione di pieni e vuoti, silenzi e sussurri e quell’appena accennata maggior coralitàlive che impreziosisce la nudità del disco ma, pur in modo totalmente non fisco, la partecipazione all’evento è intensa. La conduzione irreprensibile dell’ex-cherubino raggiunge il culmine con Blue Bucket Of Gold in cui il finale strumentale, viene dilatato all’infinito in uno tsunami calmo da undici minuti, che si appoggia su luci bianche che anelano a una divinità sintetica e galleggia su qualcosa di impalpabile fra Brian Eno e gli Spiritualized. Quasi un esercizio di bio – psichedelia nella terra dove la psichedelia è di casa. Sufjan ha fatto bene i compiti. Raggiunto lo scopo, si mette il cappello da baseball, prova a raccontare una storia di liceo e ci spiega come le canzoni tristi siano un esorcismo che porta gioia. Ultima lezione prima di sciogliersi e imbracciare il banjo. Sfilano ancora i Sette Cigni, la sorella e viene spedita una cartolina dall’Illinois. Entra anche qualche ottone, ed è tutto preambolo e attesa per quel “Libro dell’Inquietudine” che è Chicago, qui resa con uno spruzzo di elettronica che avvolge il sussurro di Sufjan, su uno dei massimi momenti della musica Pop degli anni zero. Guardare l’America senza avere l’ansia di parteciparvi. Stare alla finestra per salvarla. Ho fatto un sacco di sbagli, Pessoa avrebbe applaudito, anche lui. Sulla via di casa, sono in auto, con amici che, come da copione, tessono le lodi di quel genietto con il cappello da baseball, il banjo e le losanghe sopra di lui. Mio figlio da casa mi scrive un messaggio sul cellulare. “Ma dove siete che non riesco a dormire, perché sto accanto a mia sorella, che se si spaventa almeno sono qui io. Ma dove siete”. Mio figlio, cuore indomito, con un piede sulla Main Street di Fredericksburg, grande e incognita, pronta a mangiarselo. Come Sufjan, davanti al racconto di un’America infinita che non perdona, aggrappato alla gonna della Madre, con tanta paura di fare errori.

Il Direttore

 

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Long May You Run, Ilunga

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È morto a Kinshasa, all’età di 66 anni, l’ex calciatore Ilunga Mwepu.

Lo celebriamo pubblicando un mio articolo scritto (credo) quindici anni fa per la gloriosa fanzine Football Mad.

Long May You Run, Ilunga.

la figurina di mwepu

 

Nostalgia leoparda: Ilunga e lo Zaire del 1974

di Maurizio Blatto

 “Comunque, vedrai, appena il calcio africano acquisirà un po’di professionalità, quelli non ci fanno veder più palla”. “E poi, che atleti! Fisicamente sono superiori a tutti, un po’di esperienza e tecnica in più e ti saluto, caro il mio calcio europeo”. Anni e anni di profezie simili e poi finalmente sono arrivati Weah, Kanu, Finidi e soci a corroborare tesi che iniziavano a sembrare troppo esili. Prima, soltanto qualche caso sporadico. Il Camerun dello statuario Milla e lo Zambia che ficca quattro castagne all’Italia delle Olimpiadi del 1988. Ma prima, prima ancora, chi ha fatto la storia del calcio africano? La risposta non può che essere una e una sola: suo malgrado, lo Zaire del 1974. I Leopards dello Zaire sono entrati nella leggenda del calcio grazie ad un paio di batoste feroci, ma soprattutto in virtù di gesto geniale, sorprendente e “definitivo”. Calma, andiamo per gradi. Mondiali del 1974, Germania. Il grande show di Cruyff, Beckenbauer, Rivelino e del capocannoniere polacco Lato. Il Mondiale di Chinaglia che, leggiadro, indica a Valcareggi le modalità per andarselo a prendere nel culo, simbolo deragliante di un Italia eliminata subito e capace di vincere unicamente con la nazionale di Haiti, dopo essere andata sotto per un gol di Emanuel Sanon, cannoniere e simbolo insieme al portiere acrobata Henry Francillon della nazionale dalla casacca rossa. Il Mondiale di Jurgen Sparwasser che, il 22 di Giugno, segna e assegna il “derby del Muro” (così venne  definito all’epoca, un’epoca dove nessuna Trabant aveva ancora capottato nell’Occidente) alla Germania dell’Est e se la ghigna alla faccia dei futuri campioni, prima di tornare a casa per colpa di Neeskens, Rensenbrink e Rivelino nel primo girone di semifinale. E’proprio nel 2° gruppo di quel Mondiale, che vengono inseriti i Leopards, casacche verde prato, tre righe gialle Adidas, stemmone con il leopardo sul torace ed orgoglio dello Zaire tutto. Campi da gioco: Francoforte e Gelsenkirchen. Rivali: Jugoslavia (ah, i perfidi slavi, sempre temibili…), Scozia (l’unica squadra a non aver mai perso una partita durante le qualificazioni a Germania‘74!) e i campioni in carica del Brasile (u Brasil, Rivelino, futebol bailado, samba, Dirceu…). Girone bello difficilotto per i leopardi, ma chissà, potrebbero anche essere una rivelazione, non si può dire. Ricordiamo che quelli erano anni in cui il calcio non dominava la televisione e ben poco si vedeva oltre gli spalti italici. Tutto può essere. Ovviamente non fu. Lo Zaire risultò tanto “naif”, sprovveduto e debole da suscitare una simpatia immediata e sempiterna. Una vera armata Brancaleone al cospetto del calcio europeo e sudamericano, un’accolita di improvvisatori che, peraltro, rappresentava realmente il meglio del calcio africano all’epoca. Sempre nel 1974, in Egitto, fu infatti proprio lo Zaire ad aggiudicarsi la Coppa d’Africa (girone eliminatorio alle spalle del Congo e sopra Guinea e Mauritius, semifinale vinta per 3 a 2 sui padroni di casa dell’Egitto e finale vinta nella partita di ripetizione per 2 a 0 sullo Zambia, dopo l’1-1 e il 2-2 ai tempi supplementari della gara giocata il giorno prima). Inoltre l’anno precedente, la formazione zairese dell’A.S. Vita si era aggiudicata la Coppa dei Campioni d’Africa, subentrando ai successi del 1967 e 1968 del TP Englebert. Il presidente (imperator-simil dittatore) Mobutu Sese Soko aveva ripulito la capitale Kinshasa dalla criminalità con una maxi retata conclusasi con un’esecuzione di massa nei sotterranei dello stadio e, in ottobre, avrebbe cercato lustro ospitando il leggendario incontro di boxe tra Mohammed Alì e George Foreman, con imperdibile corredo di James Browm, Miriam Makeba e Spinners. I presupposti c’erano. Lo Zaire, nelle qualificazioni africane ai mondiali, fece fuori, nell’ordine: Togo, Camerun, Ghana, Zambia ed infine Marocco. Sì, i presupposti c’erano. Poi si giocò e ci si accorse che quello che mancava era la squadra. Un disastro. Si partì il 14 giugno alle 19,30: Westfalenstadion di Dortmund, Scozia e Zaire di fronte a ventisettemila spettatori. I Leopards schierano Kazadi, Mwepu (ricordate questo nome), Mukombo, Buhanga, Lobilo, Kilasu, Mayanga, Mana, N’daye, Kidumu e Kakoko. Formazione di tutto rispetto, come avrete intuito dai nomi, ma non sufficiente ad arginare gli scozzesi, che non spingono al massimo ma insaccano due pere, al 26° con Lorimer e al 33° con Jordan, entrambi in forza al Leeds United. La tv italiana non manda nemmeno la partita in diretta, si accontenta di una misera sintesi alle due di pomeriggio del giorno dopo. Ehi, cazzo facciamo, snobbiamo i leopardi? Comunque, poco male, non è stata una vera Waterloo, vediamo cosa succede con la Jugoslavia. Eh, vediamo dai. 18 Giugno, Gelsenkirchen, Parkstadion, ore 19, trentunmila spettatori (per mamma Rai ancora sintesi il giorno dopo). Lo Zaire schiera la stessa formazione dell’esordio con la sola variante di Kembo al posto di Mayanga. D’altro canto, squadra che ne prende solo due, non si cambia. Il dramma è che i leopardi ne buscano nove. Nooove a zero!! Una mazzata bestiale. Ecco i marcatori: Bajevic (8°, 30°, 81°), Dzajic (14°), Surjak (18°), Katalinski (28°), Bogicevic (38°), Oblak (51°) e Petkovic (65°). La squadra è allo sbando e ad un certo punto pare persino che la Jugoslavia (anche gli slavi non son poi così perfidi…) decida di non infierire troppo. Un gesto (non ancora quello) sintetizza l’intero incontro: al ventunesimo, il portiere Kazadi, tra le lacrime, chiede di essere sostituito. Più tardi affermerà che mai, nella vita, si era sentito così umiliato. Aggiungiamoci l’espulsione di N’daye e avremo il quadro di una squadra fatta a pezzi, letteralmente schiantata. Sberla dura, anche perché ora tocca al Brasile, nientemeno che ai campioni del mondo. Facendo le dovute proporzioni si teme un risultato stile cappotto d’Astrakan, qualcosa tipo ventisette a zero o giù di lì. I Leopards, giustamente, si cagano un po’ nella tuta, ma fieri, si presentano comunque puntuali all’appuntamento con la storia. Che è fissato alle 16 del 22 Giugno, ancora al Parkstadion di Gelsenkirchen (per la cronaca, manco i detentori del titolo convincono la Rai a mandare l’incontro in diretta) di fronte a trentaseimila spettatori. Lo Zaire persuade Kazadi a tornare tra i pali e cambia qualche elemento: dentro i nuovi Kibonge, Tshinabu, N’Tumba e vediamo un po’ cosa succede. Succede che il Brasile ne infila tre (Jairzinho 13°, Rivelino 67°, Valdomiro 78°), il che, date le previsioni, è un mezzo trionfo. Troppa la disparità. Nonostante quello non fosse un Brasile irresistibile schierava comunque Leao, Nelinho, Luis Pereira, M.Marinho, F.Marinho, Piazza, Rivelino, Jairzinho, Leivinha, Cesar Carpegiani e Edu, collocandosi, rispetto agli africani, letteralmente su un altro pianeta. Non è comunque nelle tre legnate brasileire che si deve cercare il diamante dell’incontro. Il picco, il gesto geniale (ecco, ci siamo) si colloca tra i nove metri circa che separano Rivelino, posizionato davanti al pallone, e la barriera leoparda schierata qualche metro davanti alla linea dell’area di rigore. Come d’abitudine su ogni punizione, Rivelino prende una lunga rincorsa mentre l’arbitro rumeno Rainea, novello mossiere del Palio di Siena, suda sette casacche per tenere a bada gli scalpitanti leopardi. Stop. Fermo-immagine sul numero due dello Zaire, il volenteroso Ilunga Mwepu (sì, di nome faceva proprio Ilunga, come quando cercate di spiegare a vostra bisnonna con che lettera inizia Juventus) che tarantoleggia in barriera. All’improvviso Rainea fischia e lui, come i geni e gli eroi, i fulminati o i Masaniello che han fatto la storia, appalta la mente e la ragione e si affida al cuore e all’intuito. Vede Rivelino che esita e forse pensa “cazzo fai Rivelino, tentenni, cazzo fai, non tiri? Ah no, beh allora tiro io”. E va. Lui va e corre con falcate imperiose, a metà tra Olivia, la fidanzata di Braccio di Ferro ed Emil Zatopek. Va nel silenzio improvviso, sgambazza davanti a settantaduemila sguardi attoniti di spettatori che lo vedono e pensano “ma cos’hai nella testa Ilunga, l’acqua dei pesci?”. Lui è andato, troppo tardi, ormai è a un passo. Eccolo che arriva e pianta una stanga che nemmeno Ercole e Maciste e Antonio Hinoki e Piedone lo Sbirro messi insieme. Papapum e la palla viaggia verso la porta di Leao. Stop. Il tempo riprende il suo corso naturale, ed è il panico. Rainea, indignato, fischia, chiama Mwepu e lo ammonisce. Jairzinho con una testa afro che al confronto Bob Marley sembra uno appena arrivato al C.A.R. non riesce a trattenere lacrime di riso, va vicino al numero due leopardico e agitando una mano sotto gli occhi, come quando si allontanano le mosche probabilmente gli dice “Uei, Ilunga, ma tu sei completamente andato”. Mwepu intanto, stranito dal giallo di Rainea, letteralmente si inchina e ammicca tipo “va bè, allora ammoniscimi dai, hai ragione tu, dai”. Morale, quest’uomo selezionato tra sedici milioni di abitanti e duemila tesserati zairesi si è presentato ai Mondiali senza nemmeno conoscere le regole basi del calcio giocato. Tipo: se stai fermo novanta minuti sulla linea di porta del portiere avversario facilmente finirai in fuori gioco e se hai una punizione contro non valgono le regole di “fazzoletto” per cui appena fischiano chi arriva primo vince. Meglio così, la stecca diabolica di Ilunga ha consegnato lo Zaire al mito, elevandolo in qualche modo dal mesto ultimo posto al girone (per la cronaca, la Scozia verrà eliminata per differenza reti, pagando oltremodo una certa clemenza riservata ai Leopards) concluso a zero punti e con meno quattordici di differenza reti. Anni luce dopo il black-out dei neuroni di Mwepu verranno le vittorie olimpiche di Nigeria e Camerun, ma il nostro più nostalgico pensiero va all’estroso Ilunga, probabilmente rispedito in qualche cortile, a ripassare i fondamentali dell’arte pedatoria. Se giochi ancora, come meriti, tieni duro e sui corner attento a non fare il terzo tempo, che quello, è il basket.

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Record Store Day 2015

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space is the place

Backdoor is the shop

 

space is the place

Visto il grande successo di pubblico e critica dell’anno scorso,

anche quest’anno la conduzione del Record Store Day è affidata al Signor Franco

sono confermate le iniziative del 2014:

-i prezzi rimarranno invariati

-compri due paghi due

più la novità:

-possibilità di orario continuato (dipende da chi c’è in negozio)

Vi aspettiamo, come sempre, numerosi

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Votazioni Finali Clienti Backdoor 2014

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più tardi del tardi (influenza, schede consegnate in ritardo, pigrizia, slackerismo pavementiano), ecco finalmente le votazioni dei clienti Backdoor, giusto in anticipo di qualche mese per il primo bilancio di metà 2015.

VOTAZIONI FINALI CLIENTI

BACKDOOR 2014

 

Disco dell’anno:

 

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1-Sun Kil Moon Benji

2- Scott Walker and Sunn O)))) Soused

3- Damon Albarn Everyday Robots

4- Real Estate Atlas

5- Ben Seretan Ben Seretan

6-Swans To Be Kind

7-Popstrangers Fortuna

8-Sleaford Mods Divide And Exit

9-Giardini di Mirò Rapsodia Satanica

10-Altro Sparso

11-C’Mon Tigre C’Mon Tigre

12-Neneh Cherry Blank Project

13-Bob Mould Beauty & Ruin

14-Ben Frost Aurora

15-Parquet Courts Sunbathing Animals

16-Stephen Malkmus and the Jicks Wig Out At Jagbags

17-J Mascis Tied To A Star

18-Lee Fields & The Expressions Emma Jean

19-News For Lulu Circles

20-Mark Barrott Sketches From An Island

 

Miglior concerto dell’anno

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1-Ben Frost (Club To Club, Torino)

2-Loscil (Blah Blah, Torino)

3-Ninos Du Brasil (Barrio, Torino)

 

Miglior canzone dell’anno

sun kil moon

Sun Kill Moon I Watched The Film The Song Remains The Same

 

Miglior disco italiano dell’anno

ALTRO-SPARSOcover

 

1-             Altro Sparso

2-             Giardini di Mirò Rapsodia Satanica

3-             News For Lulu Circles

 

Miglior ristampa dell’anno

slint reissue

Slint Spiderland

 

Disko minkia:

immondizia

Plebiscito per Lo Stato Sociale L’Italia Peggiore, che però viene scartato da tutti in quanto “troppo facile”.

Così finiscono dentro How To Dress Well, Alt-J, Shellac, Merchandise, Xen e Aphex Twin

Citazione di (de)merito per l’accoppiata live al Traffic di Torino Max Pezzali/i Cani

 

Tu sei un dj:

Incredibilmente vieni assoldato da un’agenzia di dj specializzata in feste per vip morti ma resuscitati. Devi mettere i dischi al compleanno di uno dei nomi indicati qui sotto. Scegline almeno uno e indica quattro canzoni.

 ecco qualche selezione:

-Cleopatra

cleopatra

 

 

 

 

 

 

ABC Poison Arrow

The Velvet Underground All Tomorrow’s Parties

The Smiths Some Girls Are Bigger Than Others

Jonathan Richman & the Modern Lovers Egyptian Reggae

The Bangles Walk Like An Egyptian

Death In June Symbols of the Sun

Pixies Tony’s Theme

Weezer Cleopatra

 

-George Best

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Brian Eno Baby’s On Fire

The Beatles Happiness Is A Warm Gun

The Smiths Sweet and Tender Hooligan

Oasis Live Forever

Morrissey The Last of the Famous International Playboys

Laurel Aitken Hey Bartender

Gun Club Walkin’ With The Beast

Oasis Cigarettes and Alcohol

Tina Turner (Simply) The Best

Morrissey Do Your Best and Don’t Worry

The Pogues Fairytale of New York

-Bombolo

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The Smiths That Joke Isn’t Funny Anymore

Bee Gees I Started A Joke (nella versione dei Low)

Boyd Rice Disneyland Can’t Wait

Johnny Dorelli Arriva la bomba

 

 

 

 

-Camillo Benso Conte di Cavour

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Paolo Conte Max

Lambchop Low Ambition

Gipo Farassino Muntagne del me Piemont

Laibach Opus Dei

Orchestra Bagutti con Matteo Tarantino Bianco Rosso e Verdone 

Loris Gallo Gent parej

Le nostre Valli Vecchio paese

Brian Eno Three Variations on the Canon in D Major: Fullness of Wind

 

 

 

 

 


Trofeo De Michelis

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questa sera, 16 gennaio 2015, al termine della presentazione

di 50×80’s (Casseta Popular, Via Tripoli 56, Grugliasco TO):

 

gran quiz a premi

“Trofeo De Michelis”

 Domande di cultura anni ottanta

 

Conduce Maurizio Blatto

Giudice inflessibile Giorgio Pilon

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Vietato l’uso di smartphone,

pena la consegna a una corte marziale presieduta da Stefano Giaccone

 

 

 

 

 



Privè gennaio 2015: eccellenze natalizie

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Mi rendo conto, avete appena archiviato il Natale e le sue abbondanze gastronomiche, il contatto forzato con i parenti (i penitenziari della Guyana francese, al cospetto, spesso sembrano villaggi vacanze), la dannazione dei regali.

Ma è il caso di tornarci per qualche minuto, perché quello è davvero un periodo di effervescenza assoluta per richieste che danzano sul crinale del demoniaco.

Desideri sopiti si destano all’improvviso, brucianti nostalgie di porcherie radiofoniche, immondizie ascoltate in età pre puberale, colonne sonore di prime trombate: tutto riemerge.

Se già durante l’anno non si scherza, a Natale le richieste musicali (insomma, più o meno musicali) trovano glorificazione assoluta.

Ci ho quasi costruito un libro sopra e non dovrei esser proprio io a lamentarmene, ma ammetto che talvolta mezz’etto di banalità non mi dispiacerebbe

Tant’è, quindi gustatevi il meglio delle ultime settimane e buon 2015.

Maurizio

 mary poppins

-“Colonna sonora di Mary Poppins su 45 giri?”

Non è pazzesca, lo so, ma testimonia il desiderio pieno di qualcosa che, chissà perché, durante l’anno langue sedato nel subconscio.

Ti svegli un mattino e prima ancora di abbandonarti al sapone o ai Pan di stelle, ti dici “Ma vaffanculo, sai che mi è venuta voglia di ascoltare la canzone di Mary Poppins, quella là che ci cantava zia Teresa, quando Palanca giocava ancora nel Catanzaro?”.

E allora prendi il telefono, e ovviamente chiami qui.

folk alto at

-“Avete gruppi folk (pausa) anche altoatesini?”

Il richiedente, mai visto, era giovanissimo e indossava un loden verde e un cappello da schutzen urbano, con barba regolamentare da Devendra Banhart.

La parte che più preferisco è l’anche.

Come dire “per questa volta, ma solo per questa, non andrò tanto per il sottile.

Vanno bene anche gli altoatesini. Dai, non stiamo qui a sottilizzare. Dai”

 Tdkc60cassette

-“Mi fate vedere le cassette di Damiano D’Insegna?”

Damiano D’Insegna non esiste, ho controllato.

È un grande classico quello dei nomi emersi dal nulla.

Come i più intimi backdooriani ben sanno, esiste un Regista Occulto dei Nomi che si prende gioco di noi.

Notevole anche la richiesta di averlo su cassetta e la certezza supportata dall’uso del plurale.

Mi fate vedere? Scontato averle, scontato averlo scontentato.

trenino

-“Basi karaoke per capodanno?”

Abbastanza legittima, tutto sommato.

Ma è la precisione a solleticarmi. Che cosa si canta espressamente a capodanno?

Meu amigu Charlie Brown per il trenino con le camicie bianche macchiate di lenticchie?

Per quale festa erano destinate?

I richiedenti erano una coppia e lui indossava un colbacco e pantaloni di velluto verdone a righe spesse.

Un Breznev a piede libero, insomma.

 

italia 1

 

-“Cd di Italia 1?”

Eccellenza assoluta, forse la mia preferita.

Che cosa significherà mai?

È un genere Italia 1?

Che musica ti piace? “Maaa, sostanzialmente genere Italia 1, quello, ecco”.

Avrà voluto compilation pubblicizzate su quel canale?

Musica con attitudine da Cologno Monzese?

Che cosa mai?

Lo so, avrei dovuto chiedere lumi, ma ho imparato che il dubbio, in questi casi, è più stimolante di un’eventuale spiegazione nebulosa. In ogni caso, cd di Ialia 1. Alè.

 

froehliche_weihnachten

-“Canzoni di Natale in tedesco? Ne avete?”

Come sempre, è la raffinatezza della specifica. In tedesco.

Sottintesa l’offensiva eventuale proposta di una raccolta di carole in italiano o inglese.

Che poi, le canzoni di Natale in tedesco, mettono anche una certa ansia.

Idaliani, zembre kandare…

prof rosso

 

-“Filastrocche per bambini che non facciano paura?”

La sindrome di Dario Argento.

Il terrore che si annida nelle nenie infantile: trallallà e poi tua madre che pianta un coltello nella schiena di un cognato ridendo con il mascara sbavato.

Che cazzo ne so io di cosa può far paura a tuo nipote, tanto per dire?

E poi sia chiaro, filastrocche, manco canzoni.

Notevole il rilievo sollevato da un cliente: “Ma intendeva bambini che non facciano paura?”.

Cioè desiderava melodie per piccini dal volto non impaurente? Dobbiamo ribaltare la prospettiva? Aiuto.

cucchiai di plastica

-“Cucchiai di plastica”

Dritto così, senza nemmeno il punto interrogativo e ovviamente, al netto di qualsiasi sguardo sulla vetrina che, inequivocabilmente certifica che, seppur con fatica, vendiamo dischi.

bandiera metal

-“Avete bandiere metal a sfondo rosso?”

Le bandiere metal esistono, ne possediamo una (a sfondo nero però) di Ozzy Osbourne, regalo nientemeno che di Paolo Spaccamonti.

Ma rosse?

Quello non è un colore da metal, signora cara, al limite potevamo tentare un grigio topo o marrone tetano.

Ma rosso, spiace, niente da fare.

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-“Cercavo La vita è adesso di Pierpaolo Baglioni”

È una puttanata, avete ragione.

Ma l’idea di inserire Pierpaolo al posto di Claudio mi esalta.

Penso sia sempre frutto dell’opera de Il Regista Occulto dei Nomi.

lira

 

-“Ce l’ha un libro dove posso capire la valuta di tutti i vinili?”

A parte l’uso improprio di valuta, apprezzo il desiderio di esaustività.

Tutti, voglio saperli tutti.

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-“Avete dei poster di Michael Jackson periodo quando era ancora un negro?”

Un altro grande classico.

Nemmeno da morto, qui in zona, gli viene perdonato di essersi “sbiancato”.

Se sei un negro rimani un negro, fine.

“È come se mi vergognassi di mio padre che è nato a Messina” mi ha detto una volta un non cliente occasionale.

 

-un triplete.

Nirvana-Bleach

 

a- “È ancora disponibile Bleciu dei Nirvana?”

Per i non piemontesi, al bleciu è lo schifo, la porcheria.

Testimonianza di una consolidata tradizione di strafalcioni anglo-dialettali.

cccp

 

b- “C’è qualcosa in vinile dei Fedeli alla Linea?

Ridimensionato a gruppo qualunque dei CCCP,

piallati foneticamente alla stregua dei Teppisti dei sogni o degli Alunni del sole.

Le-Luci-della-Centrale-Elettrica_5_wm

c- “Ce l’hai il cd di quello lì delle luci?”

Ridimensionamento (n°2) di qualsiasi tentativo artistico, abbozzato fin dal nome.

Quello delle luci, sorta di livella elettricistica, è ovviamente Vasco Brondi

Viva_la_Vida_or_Death_and_All_His_Friends

 

-“Ce l’avete Viva la Figa dei Coldplay?”

Chiudiamo con il botto.

Siccome la richiesta è arrivata telefonicamente, è andata così:

“È uno scherzo? Mi stai prendendo per il culo?”.

Imbarazzo. “Nooo, aspetta, scusami, aspetta”.

Rumore di fogli. “È vero, scusami, Viva la Vida, cercavo Viva La Vida”.

Così mi sono fatto questa idea, che cervello e lingua gli vadano in automatico.

Se uno dice Viva La… lui, automaticamente, dica La Figa!

Un riflesso da cane di Pavlov.

Più forte di lui, non ha colpe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


appuntamenti natalizi

Postato il

natale insieme front

 

Appuntamenti natalizi:

 

Domenica 21 dicembre

Backdoor è aperto: tradizionale domenica in compagnia del Signor Franco

 

Mercoledì 24 dicembre

A fine mattinata brindisi indie rock con abituale contorno di panettone di farro, Villa Jolanda, regali texani e amenità assortite. Vi aspettiamo!

 

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