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the “alè che è ora” weekend
Postato il
The alè che è ora weekend:
(vi aspetto!)
venerdì 30 maggio, Ivrea, ore 23,00
Festival La grande invasione
Sala Santa Marta
Reading da MyTunes con musiche di Giorgio Pilon/Selfimperfectionist
sabato 31 maggio, Ivrea, ore 23,00
Festival La grande invasione
Liberia Cossavella, Ivrea
Reading da MyTunes con sonorizzazione a cura di Andrea Pomini
domenica 1 giugno, Cremona, ore 10,30
Festival Le corde dell’anima
Museo del Violino
Conversazione con Paolo Gualandris e Reading da MyTunes con sonorizzazione a cura di Andrea Pomini
domenica 1 giugno, Ivrea, ore 23,30
Festival La grande invasione
Sala Santa Marta
Reading da MyTunes con sonorizzazione a cura di Andrea Pomini
lunedì 2 giugno, Ivrea, ore 23,30
Festival La grande invasione
Sala Santa Marta
Reading da MyTunes con musiche di Giorgio Pilon/Selfimperfectionist
A seguire festa di chiusura del Festival e dj set a cura di Selfimperfectionist
MyTunes on tour
Prossime date:
giovedì 5 giugno
Festival cinema corto in Bra (CN)
Dalle ore 18,00 la recensione: forma breve letteraria
e a seguire reading da MyTunes con sonorizzazione a cura di Andrea Pomini
venerdì 13 giugno
Circolo dei Lettori, Via Bogino 9,Torino
Ore 21,00 MyTunes: presentazione di Carlo Bordone
e reading con sonorizzazione a cura di Andrea Pomini
venerdì 20 giugno
Spazio 211, Festival Rumore
mercoledì 2 luglio
ore 21,00 Libreria Trebisonda Via Sant’Anselmo 22, Torino
giovedì 10 luglio
ore 21,00 Libreria Il gatto che pesca,
Via Martiri della libertà 42, San Mauro (TO)
venerdì 25 luglio
Festival di Alpette
Privè (molto privè) aprile 2014
Postato il
Lo so, questo è il privè (molto privè, quasi pubblicità piena) di aprile, ma siamo a fine maggio.
Però la scusa è che, come già anticipato, oggi esce ufficialmente nelle migliori librerie all over the world il mio nuovo libro, MyTunes per Baldini & Castoldi.
Quindi, come si suol dire, sono stato incasinato.
Ma questo nuovo tomo (464 pagine!) “frutto della vita (molta autobiografia espansa) e dell’amore (drammatico, terminale per dischi e canzoni) di quest’uomo (io)” è finalmente disponibile.
Potete farmi figo e chiederlo alla vostra libreria di fiducia o farmi pavone e ordinarlo direttamente qui. Con dedica assicurata.
Il libro costa 16 euro
aggiungete 2 euro per spedizione ordinaria non tracciata
aggiungete 4,50 per spedizione raccomandata (tracciata)
se pagate paypal, sorry, ma bisogna aggiungere 1 euro in più alle tariffe.
nostro indirizzo payal: backdoor.torino@libero.it
Altrimenti (consigliato) bonifico bancario
UNICREDIT BANCA
BACKDOOR S.A.S. VIA PINELLI 45 TORINO
IBAN IT19L0200801167000002173077
BIC UNCRITB140L
Ma per premiarvi in anticipo e darvi un’idea del libro, ecco un inedito, classica outtake succosa rimasta fuori (lo ammetto, me l’ero scordata e una notte mi sono svegliato improvvisamente – merda, mi sono dimenticato i Killing Joke…).
Buon divertimento.
Maurizio
Requiem
Killing Joke
(Killing Joke, 1980)
“Essere artista ha sempre significato possedere ragione e sogni”
(Thomas Mann)
Maestro Tirelli tu possa bruciare nell’inferno del Rondò Veneziano. Rosolare sulla brace, oltraggiato da spruzzi di accendifuoco Diavolina e abbrustolito a fianco delle damine che suonano il violoncello. Lì devi stare, maledetto pavone gonfiato imballato in giacche di pelo maron e cravattini sabaudi. Quello dovrebbe essere il tuo posto, vigliacco di un baffino canavesano che mi hai impedito di entrare in un gruppo punk e roteare la chitarra come un Pete Townshend in libera uscita. Rondò alla turca, ma quella del cesso, dovrebbe essere la tua dannata dimora. Un vecchio adagio dice che chi non riesce a diventare un buon musicista in genere fa il critico musicale. Bè allora io dovrei essere il capo dei recensori. Ho provato diverse volte a imparare a suonare la chitarra. La più seria, nel 1980. Avevo quattordici anni e andavo a lezioni dalla Scimmia, arpeggiatore di quartiere così battezzato per il volto dai tratti vagamente scimpanzeschi. La Scimmia adorava i Chicago e viveva dall’altra parte del corso, un inferno di lamiere e smog, dove abitavo io. Attraversavo e mi insegnava gli accordi. Portava una riga in mezzo ai capelli degna di un sipario del Teatro della Fenice e vestiva come Tex. Dopo tre lezioni io sapevo già fare Dedicato della Bertè, e mi parve un risultato straordinario. Ero ebbro dei miei progressi, tutto funzionava. Mio padre però ebbe una soffiata da un collega. “Il maestro Tirelli, violino all’Orchestra del più importante Teatro della città, viene addirittura a domicilio. È bravissimo. Bravissimo che non hai idea”. Fui costretto ad abbandonare la Scimmia. Ci separammo per sempre sulle note di If You Leave Me Now, ovviamente dei Chicago. Tornai a casa con il cuore a pezzi e il falsetto di Uh uh uh uh no baby please don’t go nelle orecchie. Quadretto vagamente omosex, ma comunque straziante. Il maestro Tirelli si presentò senza esitazioni una settimana dopo, direttamente in camera mia, vestito esattamente come Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, ma con l’aggravante di olezzare come una mandria di pecore assassinate e lasciate macerare nell’aglio. Lo odiai all’istante. Indossava dei mocassini credo cuciti direttamente da Geppetto e con questi batteva costantemente il tempo sulle mie piastrelle. In alternativa, faceva schioccare le dita. Aveva un libro sottobraccio, dalla copertina arancione, che si chiamava Pequenos Exercicios Melodicos. Capii subito che ci sarebbero stati dei guai. Passavamo interi pomeriggi, seduti sul copriletto patchwork fatto a maglia da mia nonna Caterina, a solfeggiare con le dita. Ogni volta che sbagliavo, mi tirava una stecca sulle falangi. Era come se vivessimo nel 1850, ero certo che la sera lui telefonasse a Urbano Rattazzi o andasse a farsi un hamburger con Pietro De Rossi Di Santarosa. Mi agitava e io indispettivo lui. La cosa che meno tollerava era la mia incapacità di dominare il plettro. Presi a farlo cadere volontariamente dentro la cassa della chitarra. La scuoteva come Paul Simonon sulla copertina di London Calling e urlava inviperito “Non è possibile, in tanti anni, mai vista una cosa simile. Santa polenta, mai”. Potevo relazionarmi serenamente con uno che usava santa polenta come epiteto? Per giunta mi toccava aerare la stanza per ore, anche in pieno inverno. Tirelli se ne andava, ma una traccia di sé rimaneva in ricordo, minando persino l’esistenza di un paio di piantine grasse che avevo ricevuto misteriosamente in regalo per un compleanno. L’eau de Cavour sembrava ammazzare pure loro. Dopo due anni di questo strazio non avevo imparato nulla. Non superai mai l’ostacolo del barrè, le mie stesse dita mi erano nemiche. Lui mi scherzava. “È facilissimo, ma mi guardi per Dio!”, prendeva la chitarra e, mentre camminava in circolo per camera mia eseguendo Segovia alla velocità di Silver Surfer, un giorno intercettò un ritaglio di giornale appiccicato sopra la scrivania. Erano i Killing Joke. “Questi chi sarebbero? Musica moderna? Io apprezzo unicamente il Rondò Veneziano. Adesso prenda quel plettro e vediamo se riesce a combinare qualcosa”. I Killing Joke mettono tutti d’accordo, Tirelli a parte, ovviamente. Punk, metallari, industriali, dj alternativi, new wavers. Lenti e pesanti, con un groove di sottofondo. Immagini del Papa che benedice truppe naziste, Jaz Coleman che canta dipinto in faccia, synth e riff monolitici. Le loro intuizioni sono state la base di molte carriere conclamate (dai Nine Inch Nails ai Korn, passando pure per i Jane’s Addiction), ma nei primi anni ottanta erano ancora un culto sotterraneo. Il loro primo album si apre proprio con Requiem: giro ossessivo di sintetizzatore, riff implacabile di chitarra e bordate di batteria. Post punk marziale, sottilmente deviato. Jaz Coleman canta di bombe che ticchettano, morte, religione e parole che cessano di avere significato. Non mi stupii quando, nel 1982, proprio Coleman se ne andò in Islanda ad attendere l’Apocalisse. Stava arrivando. Davvero? Nel frattempo mi beccai un’influenza belluina. Per giunta mancavano pochi giorni all’interrogazione sul Doctor Faustus di Thomas Mann. Ero drammaticamente indietro nella lettura. Mia madre chiamò Tirelli e gli disse che avrei dovuto saltare la lezione. Finalmente una buona notizia. Non bloccò però la febbre. Requiem mi si piantò in testa. Succede, tu stai male e una canzone ti si ripresenta ossessivamente. Poteva andarmi peggio. Iniziai comunque a delirare, il Diavolo si offriva di comprarmi l’anima in cambio dell’immediata padronanza del barrè. Fui sul punto di accettare. Thomas Mann si mischiava al giro della chitarra di Geordie Walker. Mi convinsi che l’Apocalisse stava davvero arrivando e per giunta io la stavo aspettando in pigiama. Il paracetamolo mi tolse dall’imbarazzo. Guarii, presi un onesto 7 sul Doctor Faustus e, in un momento d’ispirazione, composi uno strumentale alla chitarra. Una schifezza do sol sol la sol sol che chiamai, ovviamente, Requiem. Venni a sapere che i Killing Joke tutti stavano rientrando in Inghilterra. Nessun segnale dell’Apocalisse. Meno male. Mi son sempre domandato come si fossero organizzati. Stavano su un balcone a scrutare il mare? Misuravano i venti? Chissà. Comunque decisi di farla finita lo stesso. Affrontai i miei e chiesi di giubilare Tirelli. Non ce la facevo più. Pietosamente, acconsentirono. Liberato da un simile macigno, mi presentai nella palestra del mio liceo, dove alcune band di studenti si sarebbero esibite nel pomeriggio. I nostri favoriti attaccarono per ultimi. New wave totale. Cambiavano nome di continuo. No Real, Ecole Maternelle, forse all’epoca ne avevano addirittura uno diverso. Li adoravamo. In chiusura tentarono una cover dei Killing Joke. Gli riuscì talmente male che non capimmo se fosse Wardance o Requiem. Verso metà il bassista si fermò e disse al microfono “Ci spiace ragazzi, ma non riusciamo a farla”. Uno di fianco a me, appeso al quadro svedese urlò “Fatela lo stesso e vaffanculo a Baglioni”. Gli andai dietro “Sì e vaffanculo a Tirelli e al Rondò Veneziano”. Ci fu un boato di consenso incondizionato e loro riattaccarono, forse, Requiem. Urlavamo tutti. L’apocalisse poteva attendere.
Playlist:
cose che mi sono piaciute:
Dischi:
Donato Epiro Fiume nero (Black Moss)
Tribalismo anni settanta che emerge da un rio amazzonico dove una tribù sanguinaria sacrifica un pellegrino abbandonato ai boa constrictor
(chiaro, no?).
Scuro e ossessivo.
Damon Albarn Everyday Robots (Parlophone)
Una toccante festa alla propria mezz’età
Denovo Kamikaze Bohemien (Viceversa)
L’esordio mai uscito. Diciamocelo, erano dei fenomeni pop.
Cagna Schiumante Cagna Schiumante (Tannen)
Aspro e potente. Libero. E splendido da dire: “Cosa ascolti tu ultimamente?”. “Cagna Schiumante!”.
Mette a posto chiunque
Libri:
Joe R. Lansdale La foresta (Einaudi)
Forse un po’ gratuito per il dosaggio di violenza, ma Lansdale è Lansdale
Simon Goddard Simply Thrilled – The Preposterous Story of Postcard Records (Ebury Press)
L’epopea della Postcard records di Glasgow, i Josef K, gli Orange Juice, santo cielo…
Altro:
La signora borghese (accompagnata da marito e cane dalmata) che al Salone, dopo aver comprato il mio libro, ha scelto in omaggio il 45 “brutto” La novia di Antonio Prieto.
E mi ha confidato “Sa, proprio su questa canzone ebbi un rapporto completo”.
“Ahh”, ho risposto io.
Quindi si è rivolta al marito con misurata nonchalance: “Ricordi anche tu, Aldo?”.
Impassibili, né lui, né il dalmata hanno replicato.
Enrico
Postato il
Non sono passati nemmeno due mesi dalla scomparsa di Enrico Fontanelli
e credo che chiunque lo conoscesse abbia pensato a lui ogni giorno.
Questo è il mio ricordo di Enrico, pubblicato sul numero di maggio di Rumore
Aggrappandosi a una distanza
Una delle ultime volte che ho camminato di fianco a Enrico Fontanelli lui, senza quasi fermarsi, ha scattato una fotografia a una macchina parcheggiata.
Si è abbassato leggermente e ha inquadrato una targhetta di un vecchio modello, credo, di fine anni settanta. Non saprei quale.
Mi ha sorriso, come a dire “Non possiamo farne a meno”. È vero, non possiamo.
Tutto significa qualcosa, molto ci serve. Tanto lo buttiamo. Ma ci sono cose alle quali dobbiamo aggrapparci.
Enrico era una persona gentile e ricca di talento. Aveva una faccia bellissima, che spesso mascherava con le sigarette sul palco. O con una riservatezza dolce, che l’ha accompagnato fino alla fine.
Quando ho saputo della sua morte ho rimpianto di non intendermi di macchine, dei modelli che si susseguono nel tempo. Bestia che pensa sempre ai dischi, se avessi memorizzato che cos’era quel rottame grigio che avevamo superato insieme, ogni volta che uno anche soltanto simile mi fosse passato sotto gli occhi avrei pensato, Enrico.
Un chiodo piccolo su parete liscia di tristezza. Un aggancio.
Rimangono i ricordi personali e la musica, ovviamente. Io credo che le sue macchine vere, quegli strumenti ostinatamente ancora funzionanti e tenuti stretti con lo scotch marrone, sentano la nostalgia del suo tocco, esattamente come le persone che Enrico ha sfiorato. Penso a quel meraviglioso adesivo degli A Certain Ratio che aveva appiccicato su una specie di tastiera. Lentamente si staccherà per il calore del tempo e per il freddo della sua assenza. Scelgo per Enrico due appigli. Non so nemmeno se li ha suonati lui o Daniele, se sono un suggerimento di Max. All’inizio e alla fine di Bachelite degli Offlaga Disco Pax ci sono due effetti, minimi e precisi. Dopo un minuto e venti di Superchiome, i Kraftwerk. Allo scoccare dei tre minuti e cinquantacinque di Venti Minuti, i Joy Division. Lasciati lì per noi, espliciti. Una semina di condivisione.
So che oltre alle sue canzoni, ogni volta che sentirò quelle dei Kraftwerk e dei Joy Division, quelle da cui sono stati riflessi quei pochi secondi penserò, Enrico.
E so che succederà. “Non possiamo farne a meno”. È vero, non possiamo.
Tutto significa qualcosa, molto ci serve.
Ma questo lo teniamo. Stretto, con le nocche bianche per la presa.
Maurizio Blatto
Salone del Libro
Postato ilGrazie a tutti quelli che sono passati a trovarmi al Salone,
che hanno comprato il libro aggiudicandosi una schifezza di 45 giri e hanno partecipato anche alle session fotografiche di Shake (il libro con i cani che si scrollano), straordinaria trovata dello stand di Baldini & Castoldi che mi ha quasi slogato una mascella.
sotto qualche foto
(https://www.facebook.com/baldinietcastoldi)
Maurizio
al Salone!
Postato il-domenica 11 maggio
Salone del Libro di Torino
Ore 16,00 stand Baldini & Castoldi
Firma copie +
Un disco brutto per ogni libro bello (MyTunes)
in sostanza regalo un 45 “brutto” (rigorosamente brutto) a chi compra il mio libro
in omaggio allo Stato del Vaticano, ospite ufficiale del Salone del Libro 2014,
spicca tra gli omaggi “Solo Grazie” di Padre Giuseppe Cionfoli
Vi aspetto!
Maurizio
MyTunes
Postato il(foto di Stefano Blatto)
Miei cari, si ricomincia.
Dal 21 maggio in tutte le librerie,
ma già in vendita al Salone del Libro di Torino
esce MyTunes, il mio nuovo libro.
Sotto trovate una scheda di presentazioni e i contatti “uffciali” per reading, presentazioni, vernissage e amenità assortite
Maurizio Blatto
MyTunes
Come salvare il mondo, una canzone alla volta
Saggi pag. 464- euro 16,00
“Non dimenticare le canzoni che ti hanno fatto piangere e quelle che ti hanno salvato la vita” Morrissey
Mytunes è la prova che le nostre vite sono funzionali alle canzoni. E non il contrario. Ogni parte di noi va a incasellarsi dentro melodie e stacchi di chitarra in perfetto sincrono. “Spiegare” le canzoni è il pretesto per abbandonarsi alla letteratura autobiografica. Dettagli storici e alta fedeltà narrativa. Giornalismo musicale sciolto nella fiction.
MyTunes è la rubrica più seguita della rivista “Rumore”: ne abbiamo raccolto il meglio, interamente ampliato e rivisto. Remixato verrebbe da dire, insieme a una gran parte completamente inedita. Rolling Stones, Belle and Sebastian, Battisti, Johnny Cash, My Bloody Valentine, Neil Young, Smiths e molti altri. Insieme a ricordi liceali, vacanze, rabbie quotidiane e grandi aspirazioni.
A corredo della raccolta, una serie di playlist compilate per farsi largo tra le pagine e diventare piccola colonna sonora quotidiana.
Fidatevi, la musica “è più grande della vita stessa”.
MAURIZIO BLATTO è nato a Torino nel 1966 ed è cresciuto all’interno della sua collezione di dischi. Firma storica della rivista musicale “Rumore”, è rintracciabile ovunque si discuta di pop indipendente inglese. Per Castelvecchi ha pubblicato L’ultimo disco dei Mohicani. È stato definito il “crooner del giornalismo musicale”.
Chiara Ferrero (Ufficio stampa)
c.ferrero@baldinicastoldi.it – tel. 02 94559631 – cel. 342 1405267
Mario Vanni degli Onesti (Social Media)
m.vanni@baldinicastoldi.it – Twitter: @BaldiniCastoldi
MyTunes
77 canzoni e la vita che batte dentro il loro ritmo. La storia musicale e quella dei ricordi che si porta dietro. Come una playlist, una cassetta mista dove basta schiacciare i tasti per ricordarsi chi eri, cosa succedeva e a che velocità. Il punk e le sconfitte calcistiche, l’epica familiare e le aspirazioni liceali. La sezione ritmica è la storia di quei brani, la chitarra solista è il racconto privato che ne scaturisce.
«Se ci ripenso mi vedo sempre là, anche quando l’inverno se n’è andato e la scuola è finita. Con Asleep che gira. Arrivarono le vacanze e progettai con la mia ragazza di andare in Grecia, a girare senza fretta tra le isole Cicladi. Sole, vento, libertà, ma anche gli Smiths, ovviamente. Due giorni prima di partire mi si ruppe il walkman. La semplice prospettiva di non poter ascoltare Asleep per almeno due settimane mi fece prendere in considerazione l’idea di rimandare la partenza. Avevo lo zaino pronto e il cuore vuoto. Non ce la posso fare, mi ripetevo. Sto qui. Poi mi ricordai dell’autoradio. A cassette, ovviamente. Avevo comprato un modello ai limiti dell’immaginabile, soprattutto oggi. Estraibile come tutte quelle dell’epoca, godeva di un insolito benefit: se collocate le pile nell’apposito vano, poteva funzionare come walkman. La casa produttrice forniva anche una sorta di tracolla dagli eleganti colori gialli e neri per consentirne un utilizzo da passeggio. Diventava una specie di borsello con le dimensioni e la pesantezza di un tostapane. Una follia. Tu andavi in giro con questa bestia di metallo e potevi allegramente ascoltare le tue compilation su nastro. Non credo sia mai stata utilizzata in questa modalità. La guardai e pensai “Sarò io il primo”. Andrò sulle spiagge greche in costume e tostapane walkman. Lo farò. Ascolterò Asleep, sono salvo. Comprai le pile e lo collaudai camminando nel corridoio di casa mia. Mi sarei lussato una spalla, questo era certo, ma funzionava egregiamente. Quando esposi il mio progetto, mi inquadrarono per quello che ero, un idiota. La notte prima di partire mi vennero dei dubbi. Forse pesava più il tostapane walkman dell’intero zaino. E se me lo avessero rubato? Poteva risultare un tantino scomodo? Avrei destato perplessità a fare una vacanza a piedi con un’autoradio appesa al collo? Colto da uno sprazzo di lucidità, decisi di abbandonare il mio progetto e mi scrissi su un foglietto le parole di Asleep. Rimasi sveglio e le imparai a memoria.»
Il Direttore: recensioni aprile 2014
Postato ilTornano i consigli sotto formato recensione del Direttore (che, viste alcune richieste di chiarimento, non sono io, ma l’elegante gentiluomo che potete apprezzare anche visivamente nella rubrica I Castori).
Benemerito, mentre è alla ricerca dell’Arca Perduta (la collezione completa della Flying Nun), ha trovato il tempo per queste preziose righe.
Ringraziandolo, buona lettura (Maurizio)
Recensioni Aprile 2014
Stephen Malkmus & The Jicks – Wig Out At Jagbags
Zio Steve qui è di casa. La sua aristocratica indolenza è un segno distintivo, un amuleto per rispondere alle bruttezze del mondo con un bel “chissenefrega”. Molti di noi vorrebbero essere semplicemente come lui e avere la sua stessa capacità di scartare, di poter tracciare linee oblique e quindi mettersi a lato per non farsi travolgere dalle continue folate della realtà balorda. E qui Zio Steve ci riesce alla grande, in uno dei suoi dischi più a fuoco da quando sancì la fine di quel miracolo indie pop che furono i Pavement. Lariat, il singolo, aveva già fatto ben sperare, con quella melodia quasi cubista che non avrebbe sfigurato per niente in un disco del quintetto di Stockton. I numeri in cui Stephen si prendono beatamente gioco della vita con gusto e stile qui non manca. Come in Houston Hades, dove è l’universo un po’univoco “tette, dollari e macchinoni” dei redneck texani ad essere preso magistralmente di mira. Assoli di chitarra che flirtano con gli anni ’70, ma ripiegano prima di rischiare di diventare veramente prog e un maneggio della melodia di sbieco per cui qualcuno dovrebbe dargli un bacio in fronte. (Still) alive and kicking.
Neneh Cherry – Blank Project
Il ritorno della regina. The Cherry Thing, collezione di preziose cover oblique, in compagnia del meta – jazzista Mats Gustafsson, era già stato un indizio concreto del fatto che i tempi erano maturi. E a diciotto anni da Man, ultimo segnale pubblico di Neneh, The Blank Project è un nuovo foglio bianco su cui la regina immagina le sue pulsioni, con quella visione a 360 gradi che ne ha alimentata l’intera carriera. Un’ansia onnivora svezzata fra le fila del post punk britannico più curioso e terzomondista, alla corte di Rip Rig & Panic e Slits, Neneh mostrò poi di sapersi districare al meglio fra i velluti costosi del pop degli anni Ottanta e Novanta, lasciando al mondo due tracce essenziali come Buffalo Stance e Seven Seconds. Kieran Hebden, in arte Four Tet, produce o meglio disegna un paesaggio dove l’elettronica si muove discreta dietro le quinte, lasciando che la voce di Neneh sfili fra i ritmi. Un suono volutamente scarno e profondo, perché non è più il tempo di velluti o di arrangiamenti luccicanti. E la regina svela tutti i suoi gioielli, con mestiere e classe. L’appello dell’esplicita Naked, con quello sguardo world così figlio dei primi anni ottanta. Gli echi di narcolessia trip hop di Spit Three Times, passeggiata fra i fantasmi di una Bristol ancora oggi indispensabile. Per finire con quel dub step Soul che è Everything, una vera e propria ipotesi di Neneh 2.0. Passato e futuro. Riappropriarsi delle radici per ripartire nuovi. Quanto verrebbe voglia di ascoltare la voce di Neneh in un pezzo scritto da Burial; cosa sarebbe saperla chiusa nel buio di uno studio alle prese con le trame oscure dei Raime. Per ora basti sapere che la Regina è tornata e non ha nessuna intenzione di abdicare.
Real Estate – Atlas
Matthew Mondanile ha un nome buono per una quarta generazione d’italiani trapiantati nel New Jersey. Spaghetti Alfredo e orgoglio nazionale per un Paese ricordato in cartolina. In realtà quando si mette a scrivere canzoni, Mondanile preferisce sfogliare la sua collezione di 45 giri della Sarah Records, piuttosto che rivolgersi a Cutugno e Pavarotti. Il suo terzo disco a nome Real Estate (il nostro è anche chi si cela dietro la sigla Ducktails) prosegue la ricetta dei due predecessori. L’indie pop che trova il senso nei dolci accordi di chitarra piovosi, imparati a memoria sillabando C86. La morbidezza dei passaggi chitarristici che si sposa con l’indolenza tipica degli slacker americani che se ne stanno sul bagnasciuga, ben al riparo da qualsiasi eccesso di ribalta. Canzoni pigre e morbide, come quando arriva il primo polline di primavera e ci si sente fortunatamente deboli e svogliati. Solo una gran voglia di gettarsi su un prato e puntare lo sguardo alle nuvole. Mondanile ricama accordi e rintraccia melodie lievi proprio per tutti quelli che credono che il jangle pop possa ancora salvare il mondo. Nulla di nuovo sotto il sole, nessuna pretesa di conquistare eserciti di fan dalle anime fiammeggianti, ma solo la capacità di lasciarci un manipolo di canzoni gentili, per salvarci la giornata. Non finiremo mai di ringraziare chi fa ancora dischi così.
Riccardo Sinigallia – Per Tutti
Certo, menzionare SanRemo al Backdoor è un azzardo, un gesto conscio del rischio di non essere la tazza di tè per tutti. Riccardo Sinigallia non è un fresco prodotto del Festival Dei Fiori, surrogato di qualche talent show plastico. Anche suo malgrado, con i Tiromancino prima e in solitaria poi, ha dato prima vita e poi alimentato la scuola del Pop romano di questi ultimi quindici anni, senza mai essersi preso pieno merito per questo. In un Festival che è stato dominato dal racconto di quel percorso storico che parte da De Andrè e arriva al premio Tenco, Riccardo ha rappresentato quell’Italia del Pop adulto e poco allineato che si abbevera alla fonte inesauribile di Lucio Battisti e non teme i rischi di aprirsi all’assorbimento di stili e influenze straniere. Un percorso parallelo, che non avendo cercato un terreno politico su cui definirsi, ha seguito cammini meno raccontati. L’elettronica che ha assorbito la sensibilità di Canterbury fra i banchi di scuola e sdoganata dai Radiohead di Kid A, il tropicalismo dandy di Marcos Valle e il synth pop come eco lontano di quegli anni Ottanta comunque inevitabili. E poi quel segreto aereo imparato dal Divo Lucio, dove la grana ruvida della voce si posa su cadenze morbide e rotonde, in una parola dolcemente malinconiche. Un approccio Pop che non vive di dignità alte, terreno consono al cantautorato ortodosso peninsulare. Una forma canzone che rischia sul piano dell’equilibrio tra fruibilità e ricerca, ma che nelle mani di artisti sensibili come Riccardo, può diventare preziosa. Per Tutti è il suo terzo disco solista, dove Riccardo si prende rivincite, sussurrando anni di rinunce e mettendo più a fuoco testi che dipingono l’Italia di questi anni da un punto di vista crepuscolare, dove l’osservare defilati diventa più efficace dell’urlare. Forse non per tutti, non ora, immersi in un paese troppo cinico che spesso frettolosamente confonde la cialtroneria con l’eroismo. Per chi è curioso, Prima Di Andare Via, se avete un attimo, passate di qui.
meglio essere bastonati, certe volte
Postato il
A pagina XIII della sezione cittadina de La Repubblica di oggi (edizione cartacea) esce un articolo (consueto, ormai) sul Record Store Day. Sulla manifestazione, che inizio cordialmente a detestare, mi sono già espresso in diverse sedi. L’articolo riporta alcune mie dichiarazioni, non rilasciate di persona ma prese da un comunicato stampa del mio libro (definito cortesemente “molto bello”). Parole (le mie) comunque ancora sottoscrivibili, sebbene vecchie di quattro anni e rinnovabili in tempo zero. A fianco, una mia foto dove si dice “Maurizio Blatto del Les Yper Sound”. Ora, niente contro i colleghi cittadini, ma come dire, io lavorerei da Backdoor, come scritto nell’articolo e come verificabile con un click via google. Già, la rete. L’eterna rivalità della vecchia e calda carta e del freddo ma veloce web. In pochi giorni ho risposto a precise e cadenzate (mando una domanda e tu rispondi, a quella mi aggancio e andiamo avanti. Metodo ottimale per fare una vera intervista via mail) per il sito http://www.bastonate.com/2014/04/18/maurizio-blatto/ Oggi è stata pubblicata ed è inappuntabile e ben curata, come tutto quello che sta lì dentro. Ora, sono due casi limitati e autoreferenziali, ma ognuno tragga le proprie conclusioni. Sempre su Repubblica venne recensito il mio primo libro a nome Alberto Blatto. Ora, come dire, io mi chiamerei Maurizio. Non hai un computer per verificare? Bè, magari leggi il nome sulla copertina del libro stesso. Dai. Pare sia colpa dei deskisti, categoria professionale nebulosa e, a quando risulta, più protetta degli statali odiati da Miglio e Brunetta. Chi sono costoro? Giovanissimi inesperti sciattoni che non verificano quanto scrivono? Vecchi imbolsiti da anni di lavoro pseudo usurante? Non conosco google? Mi odiano perché una volta gli ho venduto il secondo disco dei Guillemots? Non saprei. Ho un libro nuovo in uscita a maggio, e sinceramente mi tremano già le vene…