Il mondo Backdoor. Contributi sparsi tra playlist,
meraviglie annidate tra la polvere e follie condivise.
Tutto in Via Pinelli 45, Torino.
Satisfaction guaranteed: Pinelli Park
Qui le cose sembrano andare per le lunghe e allora è bene che vi porti di nuovo in gita sociale. Usciamo.
Abbigliamento libero, anzi. Nessun vincolo. Strada.
Destinazione Los Angeles, ma partenza da Bristol.
Ok, ci siete: Massive Attack “Unfinished Sympathy”.
Una ripresa sola, girata con Steadycam, dal 1311 di South New Hampshire Avenue al 2632 di West Pico Boulevard, LA.
Shara Nelson cammina, baciata dalla golden hour californiana. Intorno a lei attori e gente normale, più o meno consapevole delle riprese. La gang, all’inizio, è vera, se state attenti riconoscete anche i Massive Attack tra bikers, disabili e ubriachi. Il regista è Baillie Walsh, ma è Dan Kneece a girare con la Steadycam, fino a quando la stanchezza non lo piega e chiede di smettere.
Perché “Unfinished Sympathy” è il groove eterno, potenzialmente senza approdi. Sorretto da una “beissline” (qualcuno sa perchè) mastodontica, sulla quale salgono a piacimento pianoforte, le frasi definitive cantate da Shara Nelson, gli “hey, hey hey, hey” campionati dalla Mahavishnu Orchestra, i tagli hip hop. E un’orchestra vera, che tutti i Massive Attack vollero talmente tanto da dover vendere la proprio macchina per star dentro i costi.
Shara Nelson cammina come se avesse una missione da compiere. Intorno a lei poca bellezza, soltanto l’aspra normalità urbana. Forse rimpiangiamo anche quella, tutto è assenza quando viene negato.
Era il 1991, c’era la Guerra del Golfo. Un altro mondo. Riascoltando questo capolavoro sembra lontanissimo. Tutto lo è.
“Come un’anima senza mente In un corpo senza cuore Mi manca ogni parte …”
Shara Nelson gira l’angolo e scompare
hey, hey hey, hey
https://www.youtube.com/watch?v=ZWmrfgj0MZI
intanto ieri mattina..
fotoromanzo dark delle spedizioni Backdoor parte 2
Backdoor riaprirà, si spera presto, e i vinili torneranno a girare
ma se volete, siamo attivi per le spedizioni!
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Un amico ha lanciato una di quelle sfide che ci distraggono in questi giorni: stilare una lista di film in tema con quello che stiamo vivendo. Cinematografia survivalista. Tra i titoli suggeriti da chi ha partecipato c’era anche “Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders. Non ho un buon rapporto con Wenders, devo ammettere che, sostanzialmente, non lo capisco quasi mai. Gli esordi rappresentano per me un mistero assoluto, ma mi sono ostinato a vedere sempre i suoi film, con risultati alterni e dubbi irrisolti. Ma “Fino alla fine del mondo”, in effetti, oggi acquista un valore differente.
Il mondo è davvero finito? No, ma quasi.
In sostanza è terminato il mondo al quale facciamo riferimento, un insieme di produzioni culturali che ci nutrono e definiscono. Le “novità” musicali, cinematografiche e letterarie sono assenti, in pausa. Un vuoto d’aria che fa sobbalzare le nostre abitudini. Ci spaventa anche? Non direi. Perché siamo abitualmente in ritardo, abbiamo capitelli corinzi di libri impilati che attendono il nostro tempo libero, quintali di cinematografie da recuperare, acquisti ancora incellofanati di band meravigliose confinate al silenzio.
Il quesito sottile che forse avete cullato anche voi è stato “Ok, per me va bene così. Mi basta quello che c’è”. Una tentazione senile (a 20 anni non ti è sufficiente un bel niente), dettata da un desiderio di controllo, dalla paura di essersi persi qualcosa, un riverbero estremo della tanto celebrata “Retromania” che colpisce tutti. Dobbiamo fare i conti con quello che abbiamo, ma è già moltissimo, quindi niente più novità, grazie. Desideriamo cose, ma tra quelle prodotte finora. C’è tanta bellezza che rischiamo di lasciarci dietro.
Mostruoso, a pensarci. Seducente e tranquillizzante, a pensarci ancora.
A incrociare questi dubbi sono arrivati un paio di messaggi da altri amici, che mi informavano tristemente che era mancato Hal Willner, il grande produttore responsabile, tra gli altri, di magnifici tributi a Nino Rota, Mingus, Monk, alle musiche della Disney e a Kurt Weill. Se l’è portato via il Coronavirus, a 64 anni. Il suo ultimo tweet, alludendo a classifiche e desideri, diceva più o meno “Ho sempre voluto avere un Numero Uno, ma non questo” e allegava una mappa del contagio negli Stati Uniti. Confermava poi di essere a letto a New York, nell’Upper West Side. Ho pensato fosse un buon modo, ironico e amichevole, di salutare e andarsene, e mi sono anche ricordato che aveva curato proprio lui la colonna sonora di “Fino alla fine del mondo”. Quindi sono andato a cercarla nella mia discografia. Ma quando l’ho presa in mano ho realizzato che ricordavo male e che mi sbagliavo del tutto. Possibile? Ma come potevo essermi confuso? Non ho più il controllo del Mio mondo? Quindi basta? Va bene così? Possiamo fermarlo davvero per quanto mi riguarda? Abbiamo “già dato” fin troppo? Un pensiero utopico quanto indegno? Lo è. Perché sarebbe immondo pensare che il futuro non abbia più nulla da offrirci. Stupore, magnificenza, insolito. Sfruttiamo questa pausa, ma nel frattempo alleniamo il gusto e la curiosità. Attendere valorizzerà la ricompensa.
In ogni caso ora sei davvero “Perso nelle stelle”. Quindi, So long, Hal.
https://www.youtube.com/watch?v=NXItZTgWGes
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Mi pare evidente che, se qualcuno ce le farà avere non al prezzo di un brasato al dolcetto, dovremmo abituarci tutti quanti alle mascherine.
Il che pone alcuni interrogativi.
Come vanno portate, non dico per essere sicuri, ma per dare un’immagine corretta di noi stessi?
Mi segnala un amico che il modo figo è appesa a un orecchio, stile cazzomenefrega. Con studiata noncuranza, buttata lì. Credo sia l’equivalente di chi mette i pass gettati sulla schiena (comunque visibili ma), in modalità “ah sì, sono accreditato al Festival, ma neanche me lo ricordavo, cazzomenefrega). Segnalo solo che potrebbe cascare facilmente, a meno che uno non abbia le orecchie del Dr.Spock, ma capisco. Forse in aiuto come paracadute interno potrebbe venire il colletto della polo, immagino alzato verso l’alto, dato il soggetto in questione. (Vasco periodo anni 90 di sottofondo).
In tasca (al massimo). Obiettore totale politico anarcoide extraparlamentar che fu, refrattario a qualsiasi imposizione. Alla sola ipotetica notizia dell’adozione dell’app con riconoscimento dati e malattia è impazzito, chiudendosi sotto il lavello con l’opera omnia di Michel Foucalt. (i Crass di sottofondo).
Applicata alla perfezione (con colla Bostik, probabilmente). Il ligio integralista. “Han detto che si fa così” e basta. Controlla senza sosta che aderisca perfettamente alla pelle del viso. La schiaccia continuamente. Senza dubbio è destinato a una perdita di respiro che lo condurrà a una morte similare a quella causata dal Virus da cui tenta di difendersi. Porta occhiali che si appannano inesorabilmente. Tende, com’era prevedibile, ad assumere mentre parla il leggendario e drammatico “accento svedese”. (indie pop inglese, insomma i miei dischi)
Autoprodotta. Di necessità, virtù. Ma anche vezzo bricolage riciclista. Coppe di reggiseno, sciarpaggi Tuareg, scaldacollo in pile urticante issati sulla bocca e fissati dietro con molletta, assorbenti ritagliati, pezzi di stoffa d’ogni sorta ricamati come fossero centrotavola barocchi. Vale tutto. (Reaggae terzomondista di sottofondo).
Affronto Carnevalesco. Situazionisti Cazzari & Spritosonen Of The World. Mascherina di Zorro, quella elegante da damina veneziana (esula però da questo contesto quella da Medico della Peste, con la canapia oblunga: appropriata e di gran classe storico citazionista), ogni sorta di maschera carnevalesca acquistata in cartoleria (tipo scimmia, Ronald Reagan, Hulk, Uomo Ragno, Carlo Conti…) (Elio e le Storie Tese di sottofondo)
questi direi, per sommi capi, gli scenari possibili. E non abbiamo ancora parlato dei guanti.
Comunque
https://www.youtube.com/watch?v=EHdYhG7UWoM
(non ho saputo resistere)
ma anche
https://www.youtube.com/watch?v=VaeUJjy87Ik
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Lo so, è l’Antivirus numero 30. Un mese. Sembra di più?
Per festeggiare abbiamo un ospite d’eccezione: Francesco Farabegoli.
Ho la fortuna di scrivere con lui su Rumore https://rumoremag.com/
Ho letto (e rileggo ogni tanto) il suo blog http://www.bastonate.com/
E vi invito nuovamente a iscrivervi alla sua Bastonate per Posta http://www.bastonate.com/
Mi piace quello che scrive, ma soprattutto come lo scrive. Ho imparato molto da lui e gli sono debitore, soprattutto perché a inizio quarantena mi ha mandato la ricetta per fare le piadine in casa. Riceverla da un romagnolo ha un che di sacrale.
Ci “sentiamo” abbastanza spesso, con il privilegio lessicale di dirci cose incomprensibili ai più.
Non abbiamo mai scritto nulla insieme, anche se direi che, forse inconsapevolmente, quando iniziamo a mollare gli ormeggi formali e sbrodoliamo concettualmente, tendiamo ad assomigliarci. O almeno così mi piace pensare.
Quindi questo è un esordio ed eccoci insieme, in un breve back to back.
Il back to back è una pratica diffusa nel mondo dj. Si suona contemporaneamente, un pezzo a testa.
È un sfida di stima.
Quindi, that’s Farabegoli & me
(parte lui)
IL DOPPIO MENTO
Lo specchio di casa ha un lato di umanità che spesso non siamo disposti a riconoscere. Lo specchio ci rimanda un’immagine approssimativa di noi stessi nella quale abbiamo imparato a riconoscerci e in una certa misura accettare -voglio dire, non è che ci sia una gran scelta. Non credo fossimo pronti al deformarsi dei nostri visi addosso alle immagini sgranate lo-def che siamo costretti a spargere in giro per il mondo in questa teoria di videoconferenze.
Certo, siamo entusiasti che si possa rimanere in contatto. Ho visto più spesso i miei compagni di bevute nell’ultimo mese di quanto li abbia potuti vedere negli ultimi tre anni. Parte la videoconferenza e la webcam mi inquadra impietosa, dal basso verso l’altro. La barba ispida segna due righe su un doppio mento improponibile, il naso storto scombina le proporzioni del viso come un quadro di Picasso, la luce dei LED sui vestiti comodi che usi quando sai di non dover uscire ti ritrae con una spietatezza che al confronto Dogma 95 sembrava James Cameron. La tecnologia è supposta unirci, ma in realtà al momento unisce più che altro i surrogati made in Taiwan di noi stessi.
IL RIPORTO
A parte una breve pausa, sono sempre andato dallo stesso parrucchiere. Negli anni fedele. Drammaticamente, i due proprietari hanno venduto qualche mese fa. La nuova proprietà ha diversi negozi, un brand, ma anche arredamento e velleità hipster barbute. Impaurito, ci sono andato comunque. Chi mi ha tagliato i capelli, evidentemente, “aveva delle idee”. Dopo anni di sforbiciate con la radio che trasmetteva Morandi e i New Trolls (quel concetto di “Radio Nostalgia” soverchiante l’umano) sono uscito da una mezz’ora di trap di classe con una specie di taglio post punk perpetrato da mani legate a un cervello ignaro di cosa il post punk fosse. In sostanza qualche rasata in più sui lati. Ma anche l’agghiacciante sensazione che mi avesse pettinato come uno che necessitava di un effetto riporto .Tutti i capelli spinti un po’ in là, a coprire. Ne avevo bisogno così tanto? (sono domande che ti mettono di fronte a risposte dolorose. Attendo con terrore questa specie di app per cui sapremo se stiamo incrociando un infetto. Una delle domande mi pare sia -Sei sovrappeso?-). Comunque poi le cose sono andate come sappiamo e io mi trovo una pettinatura scomposta con accenni di riporto. E mi domando se sia evidente nelle videoconferenze, se devo stare con il mento alto per dissimularlo, se la gente che mi guarda sospetti che io possegga anche un borsello anni 70 in pelle di ratto dove conservo sigarette e tagliaunghie. Il continuo mostrarsi attraverso i diafani collegamenti web è un esercizio di introspezione e realismo estetico al quale dovevano prepararci meglio e con un certo anticipo.
JO
Il vincitore morale del girone di andata di questo periodo forzato di quarantena è una popstar dimenticata di fine anni ottanta che si fa chiamare Jo Squillo. Qualche giorno fa ha iniziato a fare djset in diretta sul suo canale instagram. Diversamente dagli altri (numerosi) set di dj più o meno famosi e rispettati, il djset di Jo Squillo è inteso essere una ragionevole versione in scala di una serata a ballare nel più compromesso villaggio vacanze del bacino mediterraneo. Il set consiste in Jo Squillo che balla senza sosta e urla slogan di stampo anarcoinsurrezionalista -rivoluzione, celebrare la vita, movimento di liberazione, brilliamo e amenità simili. Davanti a lei una consolle a cui presta saltuariamente attenzione, come un dj vero e proprio. Dietro di lei un impianto luci casereccio, una mirrorball, due manichini che chiama per nome (Michelle e Valentina), drappi leopardati e altri ammennicoli a caso. Le prime volte che mi ci hanno invitato dentro erano dirette da un paio di centinaia di spettatori, ma nel giro di un paio di giorni si sono allargate al giro degli influencer di lusso e sono trasformati in bolge dantesche da decine di migliaia di viewers. Le persone commentano in diretta, ordinando una bottiglia di Dompe al tavolo VIP e si lamentano che le scarpe col tacco iniziano a far male ai piedi. Le selezioni sono variazioni sul tema di un Deejay Time trasfigurato al secondo grado, a cui ogni tanto piove addosso qualche goccia di presente (niente di lontanamente rispettabile, il che comunque è positivo, e se c’è bisogno di una pausa puoi silenziare un secondo e piazzare un pezzo degli Spokane senza far male a nessuno). Jo Squillo, a dispetto dei 57 anni sulla sua carta d’identità, è un effetto speciale vivente: molto più in forma di me, balla per un’ora senza dar manco l’idea di sudare. Il trucco non sbava di un filo e il suo girovita è davvero notevole. Dentro ai djset di Jo Squillo confluiscono così tanti elementi culturali a caso da farlo sembrare una monumentale opera di performance art interattiva la cui portata, completamente sfuggita di mano alla sua ideatrice, potrebbe essere uno dei momenti più iconici del presente. Oppure no, è una zona grigia. Non credo che la maggior parte dei partecipanti abbia la minima intenzione in principle di pagare 5 euro per essere presente ad una serata del genere, anche se d’altra parte non è irragionevole pensare a Jo come a una possibile superstar dj negli eventi mondani che seguiranno il cataclisma. Poetico, per certi versi. Per altri versi no.
ELIZABETH
Io sono uno che ha sinceramente apprezzato il discorso della Regina Elisabetta, sono quel tipo di fenomeno lì. Non provo interesse per la monarchia, non sono indebolito emotivamente dalla quarantena e, solo in parte, sono rimasto ipnotizzato dal verde Wimbledon al giorno d’apertura del suo abito. Però ho una passione per le persone che durano, impassibili (forse, chissà) ai vuoti che gli si aprono intorno. Soffro della Sindrome di Paul McCartney. Amo la fissità facciale ed emotiva di Elizabeth, il decoro alla Buster Keaton (e anche vagamente di mia nonna Vittorina), ma soprattutto, la scelta dei vocaboli, la potenza espressiva massima di quelle frasi dette con quell’accento. “A time of disruption”, per dire, non sarebbe un titolo magnifico per un album cruciale della Dischord fine anni 90? E “United and resolute then we will overcome it” non lo vedete già scritto sulla cover di una raccolta punk h/c (o beffardamente su un bootleg di Billy Bragg?). Ma il top emotivo l’ho raggiunto con “le doti di autodisciplina e tranquilla risolutezza condita di buon umore che ancora caratterizzano questo Paese”. L’Inghilterra è tutta lì e Lei, che non mette il regal naso fuori da non so quando, lo sa bene. Un esempio zen bonsai tra XTC e Bernard Shaw. La meraviglia di quell’“ancora”. E poi la chiusura con “We Will Meet Again”, la canzone di Vera Lynn che diede speranza a molti soldati al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale. Una chiara citazione collettiva da parte di Her Majesty, che chiama a raccolta Roger Waters di “The Wall” (“Qualcuno qui ricorda Vera Lynn?”), Byrds (la loro versione in chiusura dell’esordio “Mr.Tambourine Man”) e Johnny Cash (cover di chiusura di “American Recordings IV: The Man Comes Around”). Tutto evidente. E poi la finezza di citare in chiusura una canzone di guerra ribaltando la sequenza di “The Queen Is Dead” degli Smiths, dove il brano omonimo si apre con un campionamento di “Take Me Back To Dear Old Blighty”, vecchia canzone dell’esercito inglese. La consapevolezza assoluta. Elisabetta compirà tra poco 94 anni ed è da settimane in isolamento nelle sue stanze del castello di Windsor, con la sola compagnia del principe Filippo, di due paggi e della fidata cameriera.
The Queen is not dead, boys. And she isn’t so lonely on a limb
e quindi
https://www.youtube.com/watch?v=xvQAOu7k34o
ma anche
https://www.youtube.com/watch?v=sT0-OkIl0Dw
Backdoor riaprirà, si spera presto, e i vinili torneranno a girare
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A ripensarci ora, a interpretare col senno del poi certi indizi, i segnali dell’Apocalisse c’erano tutti.
Siamo stati noi non abbastanza lucidi da saperli cogliere, da riuscire a decriptare l’allarme che contenevano nel loro involucro.
Pensateci.
Colgo l’occasione per riportare una mini carrellata. 7 come i Cavalieri, appunto, dell’Apocalisse. Alcuni sono miei, altri mi sono stati riportati. Per una questione di privacy (si dice sempre, in particolar modo quando sta per essere violata) non specificherò quali.
Ecco
1) La mia vicina di casa ha smesso di dire “dev’esserci qualcosa nell’aria”.
-analisi a posteriori: frase fatta tipicamente utilizzata per spiegare qualsiasi tipo di problema, dal nervosismo delle nuore alla perdita di sapore dei pomodorini da insalata. L’interruzione di questo mantra incontrovertibile testimonia che, infatti, qualcosa nell’aria era arrivato davvero il. Coronavirus.
2) Mi è cascato davanti, sul balcone, un pipistrello.
-analisi a posteriori: maledetto ratto volante, causa di ogni male. Pongo solo dei dubbi, alla fine è stato davvero lui a scatenare ‘sto casino? Ma soprattutto, qualcuno ha mai visto cascare bello duro un pipistrello dall’alto? In ogni caso, Batman o meno, è una chiara annunciazione di. Coronavirus.
3) L’improvvisa cessazione delle promozioni di Poltronesofà
-analisi a posteriori: considerato che i tanto adorabili Artigiani della qualità sono perennemente in televisione con un’offerta in scadenza dopo 24 ore, la loro assenza è indice di una soffiata. Quindi qualcuno “sapeva”. E ha avvertito per tempo Servizi Segreti, proprietari di seconde case e, ovviamente, quelli di Poltronesofà. Che così si sono mossi in anticipo sul. Coronavirus
P.S. Temo siano tornati, comunque.
P.P.S. Quindi, chi è che conta davvero in questo Paese?
4) L’aggressione della ciabatta
-analisi a posteriori: stavo prendendo la borsa del tennis e, dallo scaffale delle cose dimenticate, è cascata una ciabatta che mi ha colpito dritto in fronte. Precisa, lì. Chiaro, come a dire “ficcatelo in testa, ecco la Regina dei prossimi giorni. No escape. Te le puoi scordare le Clarks, a comandare sarò io”. E grazie al. Coronavirus.
5) Madre, che sei Madre
-analisi a posteriori: una domenica mattina la televisione era distrattamente accesa su un programma di agricoltura e cibo biologico (e sagre di paese con donne che frullano pietanze come rotative). Esattamente quando una valchiria del Centro Italia tesseva le lodi del lievito madre custodito e tramandato da generazioni come il singolo “Love Me Do” (prima stampa inglese) dei Beatles, un black out improvviso ha interrotto l’emissione di corrente elettrica. Un sovraccarico dovuto a forno, lavatrice e lavastoviglie all together oppure un chiaro avvertimento apocalittico, tipo “sarà il lievito madre l’unica risorsa che ti salverà dal dover uscire per comperare pane, pizza, torte, focacce et simili” e quindi ammalarti per colpa del. Coronavirus.
6) L’annuncio della reunion live dei Genesis
-analisi a posteriori: dissento, ma capisco che il nome e la minaccia di un tour globale pop prog vada giustamente interpretato. Poi, ognuno ha i suoi. Personalmente, se avessero ufficializzato il comeback degli Europe avrei infranto ogni divieto e sarei corso dall’esorcista implorando che mi proteggesse dal. Coronavirus.
7) La scomparsa delle pagine 230-249 del Televideo
-analisi a posteriori: il segnale definitivo dell’approssimarsi della Fine. Già sotto le vacanze natalizie le pagine che seguono la leggendaria 229 (Brevi di calcio. Per dire, ieri flash sulla Supercoppa del Tagikistan e sulle sanzioni previste per Kyle Walker, terzino del Manchester City, reo di aver organizzato un festino a luci rosse in casa sua nonostante la quarantena) erano out. Le pagine che informavano, quotidianamente e in rigoroso ordine alfabetico ci terrei a precisare, ogni notizia da Atalanta a Udinese (il Verona sta, correttamente, sotto la H di Hellas Verona) sono improvvisamente evaporate. Al loro posto, ancora oggi, un doloroso ed enigmatico “Servizio Attualmente Non Disponibile”. Ora, cercate di essere più precisi, cortesemente. Insomma, “Attualmente” davvero o mai più? Queste cose vorremmo saperle, che viviamo già appesi a un filo per colpa del. Coronavirus.
Era tutto lì, davanti ai nostri occhi. Non possiamo dir di no.
https://www.youtube.com/watch?v=-mnH9-SX2Tg
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innanzi tutto fate partire questo
https://www.youtube.com/watch?v=w4kG5Nb8pQo
Poi.
Ho sempre pensato che le cosiddette Pubblicità Progresso fossero sempre poco veritiere e di scarsissima efficacia.
Edulcorate, poco realiste, inutili nella maggior parte dei casi. Frasi roboanti e inesatte.
E le parole contano.
Adesso gira con insistenza “Distanti, ma uniti”. E non mi piace nemmeno questa.
La frase corretta sarebbe “Da soli, insieme”. “Alone Together” appunto, come Chet Baker e Bill Evans, due che dalla vita hanno preso colpi e ferite inenarrabili, ma che mai (MAI) hanno perso una goccia di dolcezza ed eleganza.
Anche quando erano a pezzi, percossi, massacrati dalle droghe e dai pugni, il tocco dei loro strumenti era un dono.
Chet Baker senza denti, frantumati da uno spacciatore venuto a riscuotere invano i suoi crediti, e costretto a smettere di suonare. Troppo dolore. Chet Baker che per sopravvivere lavora a una pompa di benzina, dove un giorno lo riconosce Dizzy Gillespie, che gli paga una dentiera e lo spinge a ricominciare, faticosamente, piegato a uno stile contratto, diverso.
Bill Evans cresciuto tra gli abusi e la violenza, che trova riparo nella musica. E poi crolla dopo che il suo musicista e amico Scott LaFaro si schianta in macchina tornando a casa, di notte. Si abbandona all’eroina, nonostante questo lo costringa talvolta a suonare il pianoforte con una sola mano.
Condannati a una vita di solitudine e miseria interiore, insieme sono magia. Purezza cristallina.
La malinconia eletta ad arte, in musica, non ha prezzo.
E la malinconia issata a bandiera emblema del nostro stato (Stato, status) è l’esercizio di massa odierno, in un momento in cui è bene essere separati, ma è altrettanto necessario attribuire a questo gesto il peso che merita.
Ancor di più oggi che è domenica, in cui possiamo essere, da vecchio calendario emotivo, ragionevolmente più stanchi e chiusi al mondo.
Non c’è niente di male a isolarsi ogni tanto. Per costrizione o scelta, non importa.
Anzi. L’importante è coglierne il significato.
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In molti, in questi giorni, mi scrivono per sapere come vanno le cose e chissà quando riapriremo, poi spesso, con quel misto di affetto e timore che caratterizza ogni gesto nei suoi confronti, mi domandano: “E il Signor Franco, come se la passa?”.
Chi frequenta Backdoor, non ha bisogno di ulteriori delucidazioni sul Signor Franco, conosce bene il suo fascino tarpéo, la sua rudezza agognata come doccia di purificazione, le vestigia da Sindrome di Stoccolma meets carezza da gatto a nove code. Piace alle donne death metal, che gli chiedono l’autografo. Intimorisce ed attrae. Ci si rivolge a Lui come ad Hammurabi, in cerca di un giudizio, sicuri di una condanna.
Agli altri, ancor vergini di Esso, un piccolo estratto dal mio “L’ultimo disco dei Mohicani”, in cui cerco di “spiegarlo” tramite un esempio onirico. Eccolo:
“Alcuni somatizzano il terrore che incute loro. Un nostro cliente andò in Messico e decise di fare un’esperienza sciamanica. Venne introdotto al vetusto saggio indio su un altopiano spazzato dal vento. Rimase a digiuno per quasi due giorni, quindi sotto la guida del guaritore ingerì una certa quantità di peyote. Cominciò ad avere delle allucinazioni spaventose, era attaccato da bestie feroci: tigri, serpi, iene, coccodrilli. In mezzo a loro distinse con chiarezza il volto di Franco. Non so se mi spiego”.
Bene. Quindi, per rispondere alle vostre legittime apprensioni sul Signor Franco, ho pensato che intervistarlo fosse la mossa più sensata. Vogliate gradire.
Come stai?
“Sto bene, grazie. Molto riposato”
Quindi non sei nervoso? (Se sì, per colpa di che cosa?)
“Avrei più di un motivo per esserlo. Non posso andare a correre. Da solo. Lontano da tutti. Non reggo più la metafora della guerra (campo di battaglia, prima linea, eroi, trincea, nemico). Mal sopporto la stucchevole retorica sul virus che ci sta insegnando tante cose, che cambierà la società, che ci renderà delle persone migliori. Però non sono nervoso. Atarassia”
“Mi alzo intorno alle 10. Dopo colazione pianifico gli ascolti della giornata.
Il primo giorno di Iorestoacasa non è stato difficile.
“Stanze”, Massimo Volume. “Songs From A Room”, Leonard Cohen. “Stanze di vita quotidiana”, Francesco Guccini. “Il cielo in una stanza”, Gino Paoli. “A casa tutto bene”, Brunori Sas.
Un giorno mi sono dedicato agli autori che hanno nome e cognome con la stessa lettera iniziale. Albert Ayler, Billy Bragg, Caterina Caselli, Federico Fiumani, Janis Joplin, Mia Martini, Piero Piccioni, Sufjan Stevens.
Oppure immagino di essere all’inizio degli anni 80, quando ho aperto il negozio, e allora tutto il giorno girano Cure, Siouxsie, Joy Division, Clash, Cramps, Dead Kennedys, Bauhaus. Poi resto in attesa dell’antivirus di Backdoor. Leggo molto. Libri e approfondimenti vari. Newsletter e articoli che mi vengono segnalati. Naturalmente mi dedico anche al ménage familiare. Ho risistemato la cantina. Ho messo mano ai libri riorganizzando alcuni settori. Ho razionalizzato CD e DVD. Passato l’aspirapolvere, sbucciato i piselli”.
Ti manca il lavoro?
“So che mi aspetta dietro l’angolo, ora faccio conto di essere in vacanza”.
DISCHI:
“Brown Rice” di Don Cherry
“Selected Ambient Works 85-92” di Aphex Twin
“Kiwanuka” di Michael Kiwanuka
Molto bene, grazie. Nell’accomiatarci, ti chiederei un consiglio di saggezza finale.
“Siamo tutti nell’intrattenimento”.
https://www.youtube.com/watch?v=fb_S4aWI6Og
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Io sto agli agnolotti come Braccio di Ferro sta agli spinaci.
Quindi ieri sera..
Satollo e goduto, confido finalmente di dormire.
Niente. Assolutamente niente sonno. Capita anche a voi? Un riflesso dell’overdose domestica? Non cammino più e per questo l’altra notte ho sognato che ero di nuovo in caserma, a “fare il militare”?
Dopo un po’ mi arrendo, sono le 3,18. Backdoor, timidamente, prova a muoversi e ci sono un buon numero di spedizioni. Quindi, da cittadino modello quale sono, preparo la mia autocertificazione. Di sicuro a quest’ora mi fermeranno a un posto di blocco.
Sono dodici giorni che non metto “il becco” fuori di casa. L’aria fa uno strano effetto.
Salgo in macchina: l’orario di partenza per il lavoro scatta alle 3:54. Esattamente l’ora in cui si va a funghi, o si partiva per le vacanze nel 1976. Farlo per andare a impacchettare il nuovo vinile di Stephen Malkmus è francamente bizzarro. Ma vado.
Come sempre la musica offre spunti di straordinaria saggezza.
Qual’è la prima canzone che parte, dopo la mia cattività di quasi due settimane?
Esatto. Free Again. Interpreto il segno di Alex Chilton come una protezione assoluta. Non posso fallire.
Così, ebbro di tanta libertà (che poi, a dirla tutta, io a casa stavo benissimo…) mi butto nel cuore della città deserta.
Strano, ancora nessun posto di blocco. Ok, lo ammetto, vorrei tanto che mi fermassero. Ho compilato l’autocertificazione con una quantità di dati e precisazioni (dalla visura camerale al voto dell’esame di terza media) che mi piacerebbe poterla sfoggiare. Ma niente. Azzarderei che sono l’unico fesso in movimento in città. Mi guardo in giro, tutto è vuoto e immobile, poi all’improvviso realizzo che sono spariti tutti i monopattini dalla circolazione. Poof! Evaporati. Grazie Alex Chilton, sub signo vincimus!
Comunque raggiungo l’amabile Via Pinelli e il totemico profilo di Backdoor che si specchia su Piazza Barcellona, la notoria “Piazza che non c’è”. Il mercato è transennato, per contingentare gli accessi. La misura è indirizzata soprattutto a regolare la ressa infrangibile di chi va dalla Formaggiaia, vanto e presidio gastronomico locale.
Entro in negozio e mi fa uno strano effetto, come succede a tutti i luoghi un tempo familiari che ora ti domandi “sono sicuri?”, “posso starci come ci sono sempre stato?”.
Lo guardo così vuoto e, a differenza di quando ci vengo non in orario di apertura o subito dopo le vacanze, un po’ mi rattrista. Mancano i giudizi sugli acquisti della settimana precedente, il giro turistico delle novità, quelli che si intrufolano per caso, con la faccia da Bennato e che poi comprano i Death In June (può succedere), i padri e figlio metallari (questione di gruppo sanguigno), le coppie con la busta della verdura e un usato di jazz che poi infilano tra il sedano e la catalogna. Non ci sono le persone, è ovvio. Chissà per quanto ancora. (Ma non mi mancano per niente quelli che pestano la merda di cane con le scarpe con la suola a carrarmato, in verità. E nemmeno quelli iscritti al fan club di Bon Jovi, che esistono eccome).
Nonostante tutto non mi faccio intimidire, anzi. Dalla mia ho una mascherina post punk in edizione limitata (almeno credo, con download incluso mi auguro), tra In The Flat Field e Unknown Pleasures.
Lo sguardo è un po’John Lydon periodo “Flowers Of Romance”, me ne rendo conto. Ma io ho un lavoro da compiere e non sono nemmeno le 5 di mattina. Per rispetto ai good old days collettivi e, soprattutto, ai vicini che dormono, non metto nessun disco sul piatto. Attacco i pacchi e divido i Malkmus con la perizia silenziosa di un ninja carbonaro.
Qualche ora dopo, è fatta.
Mi rivesto da Mascherato finto black block che nemmeno Adam Ant oggi, e sono pronto per tornare a casa e ri-tuffarmi in clausura domestica.
Dovremo abituarci a questa specie di mutanda trapezioidale per un po’, temo. Tra l’altro la mia ha un odore inquietante, tipo pelo di cammello. Si piazza nelle narici e non va più via. Niente male. E poi quando toglierò i guanti avrò di sicuro le mani di Topolino, enormi rispetto al corpo. Magari ci cuocio le piadine in mezzo e capitalizzo i risvolti inattesi dell’abbigliamento protettivo.
Però so che ce la faremo. Nei pacchi che stanno partendo (thank you, boyz!) ci sono veri generi di prima necessità. Sicuramente di conforto. Tranquilli a casa, i vostri dischi stanno arrivando. Tenete duro, siamo abituati alle bellezza non lineare, all’imperfezione che luccica, al dorato tra la polvere. Ahia. Mi son fatto prendere la mano e sento che dovrei dire qualcosa di parzialmente definitivo. Il momento è quello. E allora penso che
I giorni sono come una canzone di Malkmus, belli perché storti, fatti di vento in faccia mentre scordi la chitarra, di camicie che son state eleganti e scarpe da ginnastica bianche che sei riuscito a sporcare il primo giorno…
(Aiuto. Pessima, lo so. Ma, have mercy on me, non ho dormito molto, e questo è il mio grado poetico massimo disponibile per oggi, possiate perdonarmi)
https://www.youtube.com/watch?v=KmPM0dVtNhE
Backdoor riaprirà, si spera presto, e i vinili torneranno a girare
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Alla fine ne resterà uno solo. E non sarà Highlander.
La sua durata non dipende da una particolare dose di forza o di astuzia.
Semplicemente viene dimenticato, rimane tra il novero delle remote possibilità grazie a una certa noia, preservato da una pletora di “no, basta davvero”. La sua esistenza è garantita dal fatto di essersi spinto oltre i limiti temporali entro i quali la sua significanza ha valore. Scavalcati quei bastioni, perde ogni desiderabilità, si tramuta in follia atemporale, “ischerzo” da calendario, anomalia domestica, monolite da Odissea 2001 in scala ridotta e arrotondata.
È il panettone.
Bisognerebbe scomodare un esperto di statistica per comprendere come mai, inesorabilmente, a fine gennaio un simpatico monster di uvetta e canditi si aggiri ancora tra le mura di famiglia. Come possiamo aver sbagliato i calcoli? Sarà il regalo di quel pool di geometri arrivato all’ultimo? Tua zia Renata? Un malintenzionato che è venuto a cena e ce l’ha infilato di nascosto dietro ai pelati e ai ceci in scatola? Difficile stabilire delle responsabilità, ma Lui c’è.
Fuori dal perimetro natalizio, diventa oggetto di riti pagani dal dubbio risvolto ironico. Per dire, un amico ci ha raccontato di come nella spiaggia che frequenta d’estate, a ferragosto, venga tagliato e distribuito tra una folla di balneanti divertiti e partecipi. Una neo tradizione dal retrogusto satanico.
Un mio conoscente, che sperimenta da anni una linea di vita ben oltre il borderline, attende con ansia il giorno in cui al supermercato li mettono tutti all’ingresso, impilati piramidalmente, a 1 euro. Incurante di eventuali scadenze, ne acquista una dose buona per fare colazione almeno fino a metà settembre. Risparmia e, come da suoi precisi desideri, può continuare a fare un beato cazzo per i giorni a seguire.
Ovviamente ne ho uno anche io. Mi era stato intimato di portarlo via, ma da astuto volpone quale sono, l’avevo nascosto nell’armadio dietro le camicie, insieme ai vinili fatti entrare con un corridoio umanitario e in attesa di poter esser sistemati all’onor del mondo (dove? bo?).
A me il panettone piace. Mandorlato o basic. Industriale. No cioccolato, zenzero, spuma di prosecco o anomalie genetiche similari.
E sto finendo le fette biscottate ai cereali, anche il Biscotto Salute (quintessenza del Piemonte Breakfast). Persino delle specie di mini canoe al farro. E non vorrei uscire per la spesa.
Quindi indovinate un po’ che cosa inzuppo domani mattina nel mio tè fumante?
E, soprattutto, chi è il vero sopravvissuto di noi due?
https://www.youtube.com/watch?v=Qiy_PxAstpE
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Smart Stocazzo.
mi sono già espresso sull’impossibilità di negarsi di fronte a suggerimenti o richieste paracadutate addosso in questi giorni.
Ma chi lavora da casa in modalità “smart” inizia a dare segni di squilibrio evidente.
Direi che soprattutto la necessità di seguire corsi per sapere come lavorare da casa in smart, sia una delle torture più praticate. Sostanzialmente fai una cosa nel modo in cui quello che stai facendo dovrebbe insegnarti a fare (ginnastica linguistica oltre Bartezzaghi).
Poi gli orari, immagino dipenda da uno smart working aziendale o in proprio (tipo “professionisti”), ma a me non pare molto smart il fatto che anche quando va in onda “Sorgente di vita” (Rai2 01:05) ci sia ancora qualcuno che discute di fatture. E poi come fai a essere così smart da stare sul computer mentre magari tua figlia ti tira una gamba o c’è il sugo da girare? Quando si stacca sul serio? Mai? Sì, credo mai, anche perché uno in questi giorni non può nemmeno spegnere il cellulare, che poi i genitori, gli amici, gli affetti distanti. E allora suona, suona, suona. E bisogna ovviamente rispondere. “La disturbo?”. “Ma no, si figuri”.
E poi come si discute con i clienti/colleghi? A che volume? Perché va detto, la gente che sta in smart working urla. Urla come uno stormo di aquile con Burzum che le insegue con l’accetta. E tu non puoi nemmeno dire “Puoi abbassare sta cazzo di voce, che sto cercando di ascoltare un disco in santa pace?”. Perché chi sta in smart, ovviamente, di pace ne ha poca, non come te che non fai mai una mazza. E se sussurrasse o parlasse come un essere umano medio, farebbe allora la figura di uno che non sta lavorando davvero? I decibel testimoniano una maggiore aderenza impiegatizia? Mistero.
Cosa è smart poi? Il termine si utilizza quando “si vuole alludere all’intelligenza e alla capacità di una persona di fare le cose bene e in fretta, magari con quel pizzico di “problem solving” che possiede in più degli altri”.
Il che mi fa supporre che Mr.Wolf di Pulp Fiction fosse lo Smart Worker per eccellenza.
Poi smart dovrebbe significare anche “agile”. Sì? Ma se mediamente a fine giornata si hanno la chiappe a quadri, per quanto si è stati sulla sedia. O no? Rimpiangete i colleghi? La macchinetta del caffè? I tragitti casa lavoro e ritorno (che almeno lì c’era qualche minuto di decompressione)?
Non saprei, io non faccio testo, ma sappiate che avete la mia solidarietà.
Io entro in smart verso mezzanotte, quando tutti sono a dormire. Cuffie, vinile. Per dire stasera ho in programma una bella nottatina Library. Colonne sonore italiane anni 60/70, musiche composte per la televisione, samba, lounge pop, jazz erotico (che categoria, il jazz erotico), Morricone, Femi Benussi, Erika Blanc, Carmen Villani, le vacanze in Versilia, i motoscafi Riva. Insomma, ci siamo capiti. Dal momento in cui la puntina tocca il vinile entro in modalità Smart.
Smart Dreamin’
https://www.youtube.com/watch?v=XaxlLZC7gpY
Backdoor riaprirà, si spera presto, e i vinili torneranno a girare
ma se volete, siamo attivi per le spedizioni!
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