Il mondo Backdoor. Contributi sparsi tra playlist,
meraviglie annidate tra la polvere e follie condivise.
Tutto in Via Pinelli 45, Torino.
Satisfaction guaranteed: Pinelli Park
https://www.youtube.com/watch?v=e3nvJ2hmaUI
Uno dei miei sentimenti preferiti è la nostalgia.
Uno dei miei gruppi preferiti sono i Kinks.
Il loro disco che amo di più è “The Kinks Are The Village Green Preservation Society”, incentrato interamente sulla nostalgia per una vecchia Inghilterra che sta scomparendo.
Bingo, tutto torna.
Com’è noto, il disco è una sorta di concept su un villaggio rurale inglese, forse situato nel Devon. Ma lì, tra quei prati dove si gioca a cricket, Ray Davies (sempre sia lodato), inserisce alcuni dei suoi temi classici: il tempo che passa inesorabilmente, gli amici di infanzia ormai persi di vista, la natura non azzannata dalla città e gli ultimi treni a vapore. Quest’esibizione è del 1973, cinque anni dopo l’uscita dell’album, e ci sono baffi e, soprattutto, maglioni straordinari. I due fratelli Davies incrociano le voci e dietro a loro ci sono fiati spettacolari. Cantano una cosa come ”Dio salvi i piccoli negozi, le tazze in porcellana cinese e la verginità”. Mi sono sempre domandato se la Regina Elisabetta fosse informata sui Kinks.
La nostalgia è una brutta bestia, ma solo per chi non la conosce. Presuppone che ciò che ti manca ti sia piaciuto molto in passato. Quindi ne culli il ricordo, lo “mantieni” con dolcezza. E se lo fai con i Kinks di sottofondo, funziona ancora meglio.
Diciamolo: chi altri potrebbe concepire una rima come:
We are the Sherlock Holmes English-speaking Vernacular
God save Fu Manchu, Moriarty and Dracula
nessuno, chiaramente. E allora, sempre e comunque: God Save The Kinks
https://www.youtube.com/watch?v=AJ-BFlTo5ag
Passato un buon weekend? Spero migliore di quello del video di Weyes Blood (aka Natalie Laura Mering), piuttosto Lucio Fulci, a dirla tutta. “Titanic Rising” è uno dei picchi del 2019. Cantautorato 70′s (Laura Nyro quando è supportata dai fiati? i Carpenters?) giocato tra estasi pop e apocalisse dietro l’angolo. Il Natale si avvicina e, inevitabilmente, fioccano le richieste disperate e disparate. Una delle migliori: “Avete dischi di Mia Marini quando era ancora viva?”. Attenti, perché è sottile. Sottintende che cosa? Forse la possibilità che ci mandino inediti dall’aldilà (pensate che sviluppo, per il mercato discografico)? Desiderava qualcosa del suo periodo artistico ancora “propositivo”? Non voleva raccolte? Chissà. Meno criptica, ma notevole anche “Avete una bella raccolta in dvd di Renato Rascel. Ma fatta bene?”. Dritta, precisa, in barba all’indie rock, al rock sotterraneo e persino a Weyes Blood. Alè.
https://www.youtube.com/watch?v=CrwZYTqMky0
Nel 2017, le foto di questa ragazza che fronteggia un militante dell’estrema destra inglese, hanno fatto il giro del mondo. Lei sorride e non arretra di un centimetro di fronte alle offese del tipo dell’English Defense League. E, per giunta, indossa una t-shirt degli Specials. Si chiama Saffiyah Khan, è nata in Inghilterra, ed è figlia di genitori pakistani e bosniaci, all’epoca ha 18 anni. Terry Hall, il cantante della band ska di Coventry, la chiama e le affida il compito di cantare e modificare il testo di “Ten Commandments of Man”, un classico di Prince Buster. La canzone finisce sul disco (eccellente e vergognosamente poco considerato) di ritorno degli Specials di quest’anno, “Encore”, quindi vanno in tour insieme. La bellezza dell’insieme è evidente, ma qui, nel blog di Tony Face
http://tonyface.blogspot.com/2019/04/the-specials-e-saffiyah-khan.html
(leggenda mod italiana e autore di ottimi libri musicali), trovate qualche dato in più.
Gli Specials sono una delle mie band eroiche. Ho imparato ascoltandoli il valore di un concetto come “multirazziale”. Il loro esordio, oltre a essere uno dei dischi migliori di tutti i tempi, è stato anche uno dei primi che ho comprato. Avevo compiuto da poco quattordici anni e sono andato in un piccolo negozio che stava nel sotterraneo di un enorme rivenditore di elettrodomestici e hi-fi del mio quartiere. Avevo pochi soldi e idee confuse. Andai dal commesso con due dischi in mano e gli chiesi “Tu quale mi consiglieresti?”. Lui mi ha guardato e poi ha risposto “Sono entrambi molto buoni, ma per questo c’è tempo”. Era “Rust Never Sleeps” di Neil Young. “Dammi retta, compra questo e divertiti”. E, ovviamente era “The Specials”. Chissà che fine ha fatto, ma ovunque tu sia, grazie ancora per la dritta.
https://www.youtube.com/watch?v=TSMffdtyOwI
Anche quando sono debole e mi sto per spezzare
e starò piangendo alla stazione ferroviaria
perché posso vedere i tuoi volti
C’è così tanta pace da trovare nei volti delle persone
Bè, in Inghilterra è andata come temevo, forse persino peggio. Diciamo che questo è il commento che faccio più o meno su tutto quello che accade nel mondo. Sentirsi rifiutati da quell’Isola, che tanto amiamo (bastano musica e calcio?) non è una bella sensazione. Forse dovrebbe insegnarci qualcosa il concetto di “sentirsi rifiutati”. Che gran tristezza. Come mi consolo? Nel solito modo, cerco rifugio e consolazione tra i dischi, tra quello che mi dicono. In quello che provano a cambiare, anche solo a modificare leggermente. Lo so, la musica forse non ha più quel potere, però . Chissà. Per dire, io credo in Kate Tempest, nel suo accento cockney, nella sua rabbia mista alla dolcezza che in quegli anni non puoi avere ancora smarrito del tutto. Migliaia di parole le sue, anche nei libri, sempre precise, malinconicamente taglienti. Ecco, lei è una delle mie speranze
London Call(ing)? Kate Answers
bonus:
https://www.youtube.com/watch?v=ffxrCDvJ8LI
Europe Is Lost. Epitaffio in rime e groove.
https://www.youtube.com/watch?v=XvUBbROsXBw
Ok, scusate. Non dovrei scegliere canzoni tristi e storie tragiche. Ma questo è un tributo necessario. La vita di David Berman è stata ricca e molto complicata. Ha fatto bei dischi sotto il nome di Silver Jews, scritto libri, ispirato i Pavement, disegnato cartoon, ed è riapparso quest’anno con un lavoro intitolato come il suo nuovo progetto, Purple Mountains. Un disco bellissimo. Ma prima aveva sperimentato droghe, disagi personali, tentato il suicidio e rifiutato le cure (per correre al Loews Vanderbilt Hotel di Nashville e domandare la stanza dove Al Gore aveva preso residenza durante le elezioni perse nel 2000. Voleva morire lì…). Si era ripulito, ma aveva accumulato una enorme cifra di debiti. “Purple Mountains” è stato acclamato ovunque, ma David, poco prima di partire per il tour, si è ucciso nella sua stanza di Brooklyn. “Sad Song”, direbbe Lou Reed a cui, molto spesso, David assomigliava nelle ballate e nel tono della voce. Questo video è un addio preciso. Il testo non mente, guardiamolo negli occhi e ricordiamoci di lui.
https://www.youtube.com/watch?v=P96cFKd4irY
Del pop neozelandese anni ’80 e di come sia giusto considerarlo uno dei grandi miracoli dell’umanità, parlo nel My Tunes (la mia longeva e vergognosamente autobiografica rubrica) del numero di Rumore https://rumoremag.com/ in edicola questo mese. Ma lì racconto i Chills e davvero non potevo immaginare di non dedicare un po’di gloria ai Verlaines, da Dunedin, la terza capitale dell’indie pop mondiale (le altre due? bè, ovviamente Glasgow e Olympia). Death And The Maiden, 1982, è un inno assoluto e questo dovrebbe esservi chiaro dopo averla ascoltata, ma fissiamo insieme alcuni punti fondamentali.
1- l’importanza di alcune domande poste nel testo:
Ti piace Paul Verlaine?
Pioverà oggi?
Dobbiamo fare una foto?
2-sono tutti bellissimi
-Graeme Downes, che canta come un attore maledetto della Nouvelle Vague.
-Jane Dodd, incantevole bassista (oggi produce gioielli. Nel 1982 anche…) -prego andare a 3:48 quando fa il coro.
-la sequenza di volti femminili che scorre da 3:50 in poi. Cinematografia pura.
3-la presenza e l’importanza dei conigli
assolutamente riveriti e accarezzati
4-il tipo in montone e cravatta
a-chi l’ha invitato? (è palesemente fuori contesto)
b-l’aria (stile – eccomi qui, dai che stasera si carica) che assume a 2:20
c-lo sbadiglio da grullo totale a 2:34
d-che fine fa?
5-tutti che ballano benissimo
dai, è vero. Quello sulla finestra, poi. Imbattibile
6-il titolo
lo stesso di un dipinto di Egon Schiele, dove una donna abbraccia uno scheletro. Giocatevela in società, questa.
7-il verso finale
Finirai come Rimbaud
Fatti sparare da
Verlaine, Verlaine, Verlaine, …
che meraviglia.
https://www.youtube.com/watch?v=Ympb4Q-HhcM&t=302s
Rieccoci. Torna il calendario dell’avvento di Backdoor, tradizione consolidata natalizia, come l’influenza, le playlist di fine anno e il panettone di farro (quello potete mangiarlo, come sempre, solo al party natalizio backdooriano a fine mattinata del 24). Un altro grande classico del periodo è “su chi punteresti per l’anno a venire”? e giù a snocciolare nomi e grandi promesse mai mantenute. Io, abitualmente, non ci becco mai, sono specializzato in dischi buoni per il “ripeschiamoli” di vent’anni da oggi. Quando saranno dimenticati da tutti e vivranno allegramente solo nei miei scaffali. Ma, pazienza. Quindi, per il 2019, dico Lucio Corsi. Toscano, efebico, un po’ Wes Anderson e un po’ Donovan. Il video è lungo e bello, Lucio comincia a cantare dopo tre minuti, ma confido nella vostra capacità di avere una soglia di attenzione degna del 900 e non di Spotify, quindi guardatelo tutto. Poi, per capire se ho indovinato su Lucio Corsi, ci rivediamo tra un anno. O venti.
Giovedì 7 novembre
ore 18,30
Libreria Bodoni, Via Carlo Alberto 41, Torino
Giovedì 7 novembre alle 18:30 la Libreria Bodoni ospita la presentazione di Presentazione di Tom Zé. L’ultimo tropicalista (add editore) di Pietro Scaramuzzo. Intervengono Maurizio Blatto, giornalista, e Vincenzo Santarcangelo, collaboratore di Artribune e Doppiozero.
Torino -Tom Zé è il tropicalista dimenticato, il maledetto, lo sperimentatore che rompe le regole. Protagonista del movimento che nel ’68 brasiliano decretò la prima vera rivoluzione musicale dopo la bossa nova, rimase per vent’anni nell’oblio, finché David Byrne, leader dei Talking Heads, lo scovò durante uno dei suoi primi viaggi in Brasile. «Un pomeriggio a Rio mi capitò fra le mani un album di samba che in copertina aveva un’immagine con del filo spinato. Si distingueva dai dischi di quel genere musicale, che di solito avevano foto di ragazze in bikini o un ritratto del musicista. Mi chiesi se fosse un artista più irrequieto degli altri. Non mi sbagliavo del tutto».
Torino -Figura misteriosa e di culto per i fan sparsi in tutto il mondo, Tom Zé ha avuto una carriera oscillante, dal successo televisivo ai tour auto-organizzati nei piccoli centri della provincia.
Questa biografia ufficiale, frutto di anni di confronto tra l’autore e il musicista, traccia la sua rotta artistica e personale, dall’infanzia alle prime esperienze con la dodecafonia brasiliana di Hans-Joachim Koellreutter, agli appartamenti che traboccano utopia di São Paulo dove nascerà il movimento tropicalista che lo vede al fianco di Caetano Veloso e Gilberto Gil, all’ostracismo, fino alla riscoperta.
Nella costellazione di riferimenti e figure che compaiono nella vita di Tom Zé, si incontrano anche il manifesto antropofago di Oswald de Andrade, l’architettura di Lina Bo Bardi, l’innovazione pubblicitaria di Washington Olivetto, Glauber Rocha, Arto Lindsay, e l’universo Tom Zé è ancora in espansione.
In occasione dell’uscita del suo album, ecco la recensione, courtesy by Francesco Vignani
KIM GORDON
NO HOME RECORD
MATADOR
O dell’arte di fare giri larghissimi per tornare a casa, volendo. Lo faceva intuire in fondo l’espressione della Gordon – non bastasse, cercate le parole di fuoco dedicate all’episodio nella sua autobiografia – durante il finale di Teenage Riot nell’ultimo concerto di sempre dei Sonic Youth. Insieme a quel senso che per lei che più che per l’ex marito e soci davvero si stesse chiudendo un capitolo, se da lì in poi poco sarà riportabile al (larghissimo) perimetro della band di NY. Non i Body/Head, da cui neppure strizzando uscirebbe l’ombra di una melodia, e neppure i più atmosferici Glitterbust.
Che si torni però a casa è lei stessa a raccontarlo, parlando di un disco nato proprio come agli inizi degli anni Ottanta: una chitarra, una drum machine e testi copiati e incollati dalle riviste. E un tema di fondo legato al concetto di identità nel mondo moderno che chissà quanto involontariamente passa dall’universale al personale, se diverse sono le identità della stessa Kim Gordon qua in gioco. Quella newyorchese, malgrado non ci viva più da anni, con brani come Air Bnb e Earthquake a risalire filologicamente la storia della loro autrice fino ai momenti più frastagliati di Experimental Jet Set…dei SY e una Sketch Artist a rileggerla in chiave post moderna su un arrangiamento elettronico fra Liars e Anohni. Come quella della Gordon di oggi, meno dogmatica e più disposta a lasciarsi guidare: notevole ad esempio in zona il lavoro del produttore Justin Raisen nelle frustate ritmiche di Don’t Play It Back come nelle luci accese sul noise di Murdered Out. Con un finale quasi a metà strada, fra la stoogesiana Hungry Baby e il feedback devitalizzato di una Get Yr Life Back Yoga sul cui testo molto si ricamerà, ma a suo modo chiosa perfetta per il disco che non speravamo più di sentire da miss Gordon.
FRANCESCO VIGNANI