Il mondo Backdoor. Contributi sparsi tra playlist,
meraviglie annidate tra la polvere e follie condivise.
Tutto in Via Pinelli 45, Torino.
Satisfaction guaranteed: Pinelli Park
Non sono passati nemmeno due mesi dalla scomparsa di Enrico Fontanelli
e credo che chiunque lo conoscesse abbia pensato a lui ogni giorno.
Questo è il mio ricordo di Enrico, pubblicato sul numero di maggio di Rumore
Una delle ultime volte che ho camminato di fianco a Enrico Fontanelli lui, senza quasi fermarsi, ha scattato una fotografia a una macchina parcheggiata.
Si è abbassato leggermente e ha inquadrato una targhetta di un vecchio modello, credo, di fine anni settanta. Non saprei quale.
Mi ha sorriso, come a dire “Non possiamo farne a meno”. È vero, non possiamo.
Tutto significa qualcosa, molto ci serve. Tanto lo buttiamo. Ma ci sono cose alle quali dobbiamo aggrapparci.
Enrico era una persona gentile e ricca di talento. Aveva una faccia bellissima, che spesso mascherava con le sigarette sul palco. O con una riservatezza dolce, che l’ha accompagnato fino alla fine.
Quando ho saputo della sua morte ho rimpianto di non intendermi di macchine, dei modelli che si susseguono nel tempo. Bestia che pensa sempre ai dischi, se avessi memorizzato che cos’era quel rottame grigio che avevamo superato insieme, ogni volta che uno anche soltanto simile mi fosse passato sotto gli occhi avrei pensato, Enrico.
Un chiodo piccolo su parete liscia di tristezza. Un aggancio.
Rimangono i ricordi personali e la musica, ovviamente. Io credo che le sue macchine vere, quegli strumenti ostinatamente ancora funzionanti e tenuti stretti con lo scotch marrone, sentano la nostalgia del suo tocco, esattamente come le persone che Enrico ha sfiorato. Penso a quel meraviglioso adesivo degli A Certain Ratio che aveva appiccicato su una specie di tastiera. Lentamente si staccherà per il calore del tempo e per il freddo della sua assenza. Scelgo per Enrico due appigli. Non so nemmeno se li ha suonati lui o Daniele, se sono un suggerimento di Max. All’inizio e alla fine di Bachelite degli Offlaga Disco Pax ci sono due effetti, minimi e precisi. Dopo un minuto e venti di Superchiome, i Kraftwerk. Allo scoccare dei tre minuti e cinquantacinque di Venti Minuti, i Joy Division. Lasciati lì per noi, espliciti. Una semina di condivisione.
So che oltre alle sue canzoni, ogni volta che sentirò quelle dei Kraftwerk e dei Joy Division, quelle da cui sono stati riflessi quei pochi secondi penserò, Enrico.
E so che succederà. “Non possiamo farne a meno”. È vero, non possiamo.
Tutto significa qualcosa, molto ci serve.
Ma questo lo teniamo. Stretto, con le nocche bianche per la presa.
Maurizio Blatto
A pagina XIII della sezione cittadina de La Repubblica di oggi (edizione cartacea) esce un articolo (consueto, ormai) sul Record Store Day. Sulla manifestazione, che inizio cordialmente a detestare, mi sono già espresso in diverse sedi. L’articolo riporta alcune mie dichiarazioni, non rilasciate di persona ma prese da un comunicato stampa del mio libro (definito cortesemente “molto bello”). Parole (le mie) comunque ancora sottoscrivibili, sebbene vecchie di quattro anni e rinnovabili in tempo zero. A fianco, una mia foto dove si dice “Maurizio Blatto del Les Yper Sound”. Ora, niente contro i colleghi cittadini, ma come dire, io lavorerei da Backdoor, come scritto nell’articolo e come verificabile con un click via google. Già, la rete. L’eterna rivalità della vecchia e calda carta e del freddo ma veloce web. In pochi giorni ho risposto a precise e cadenzate (mando una domanda e tu rispondi, a quella mi aggancio e andiamo avanti. Metodo ottimale per fare una vera intervista via mail) per il sito http://www.bastonate.com/2014/04/18/maurizio-blatto/ Oggi è stata pubblicata ed è inappuntabile e ben curata, come tutto quello che sta lì dentro. Ora, sono due casi limitati e autoreferenziali, ma ognuno tragga le proprie conclusioni. Sempre su Repubblica venne recensito il mio primo libro a nome Alberto Blatto. Ora, come dire, io mi chiamerei Maurizio. Non hai un computer per verificare? Bè, magari leggi il nome sulla copertina del libro stesso. Dai. Pare sia colpa dei deskisti, categoria professionale nebulosa e, a quando risulta, più protetta degli statali odiati da Miglio e Brunetta. Chi sono costoro? Giovanissimi inesperti sciattoni che non verificano quanto scrivono? Vecchi imbolsiti da anni di lavoro pseudo usurante? Non conosco google? Mi odiano perché una volta gli ho venduto il secondo disco dei Guillemots? Non saprei. Ho un libro nuovo in uscita a maggio, e sinceramente mi tremano già le vene…
Come sempre per ultima, ecco la playlist con i voti dei clienti di Backdoor.
Somma democratica delle vostre preferenze,
è questa volta arricchita dagli illustri commenti di qualcuno di voi.
Grazie.
Il disco che hanno votato tutti. Buffo che sia giudicato un lavoro pensato apposta per gli hipster e che stravinca in un negozio dove nemmeno la parola ha una sua vaga cittadinanza. Grandissime canzoni. Il tuono del synth e il dolore di Roma, oltre il gusto di appassionarsi a qualcuno che ha la metà dei tuoi anni. Il nostro 2013 è suo.
Il Sacro Graal del rock indipendente, atteso per decenni e agognato come impossibile chimera. Il ritorno di Kevin Shields vale molto di più del gossip che lo ha circondato. Il rapimento di Loveless che trova nuove forme, fra l’intenzione di continuare a guardarsi la punta delle scarpe incuranti del tempo che passa, e una voglia di esplorare teneri territori pop, senza paura del rischio. Un oggetto prezioso, oltre il tanto rumore per nulla, che esiste al di là della voglia di pensarlo un capolavoro in anticipo. Una ferita ancora meravigliosamente aperta. (Il Direttore)
Un cammino disseminato di indizi e caccie al tesoro di dischi troppo presto diventati milionari. Attese create scientificamente ad arte. I fratelli scozzesi Eoin tornano sul luogo del delitto con la loro sinfonia aerea dove la struttura elettronica si perde in paesaggi pastorali che sfuggono ad ogni definizione. Una vera e propria sospensione sul mondo, impalpabili e in attesa di un futuro che non sappiamo dire. Alcuni ne riconoscono elementi cari alla library, altri la continuazione di un discorso che Aphex Twin iniziò tanti anni fa. L’enigma rimane, ma il viaggio continua ad affascinare. La perfetta colonna sonora per un tempo incapace di autodefinirsi. (Il Direttore)
La retromania è diventata un trend. Quasi che guardarsi indietro fosse l’unica salvezza per far finta che quanto ci attende più avanti non sia ineluttabile. Lo sfogliare l’album dei ricordi diventa una scusa per impadronirsi dei cuori di eserciti di ascoltatori che vogliono trovare rifugio nel passato, non avendo chiaro che cosa possa essere il futuro. Library music, recupero a mani basse di ogni piccolo frammento sonoro perduto fra gli scaffali di radio e televisioni, edizioni limitate, box di trasmissioni radiofoniche gracchianti. Tutto fa, per sentirsi meno nudi alla meta, riscaldati dal soffio caldo di quello che eravamo. Allora tanto vale guardare a quei fantasmi senza paura, con l’assoluta certezza della loro fisicità, necessità, ora. Bianconi e i suoi amici dandy per la prima volta non scherzano, non sfogliano le fotografie in bianco e nero per farsi vezzo di sé davanti allo specchio. Il fantasma del De André di Storia di un impiegato è reale, cosi come la cronaca nera romana di un Gadda postmoderno o gli intermezzi d’archi da colonna sonora di un film italiano anni settanta che avevamo dimenticato troppo presto. In una parola, necessario. Un progetto di canzoni pesanti e solidissime dove l’Italia che voleva essere, l’Italia di un compromesso storico finito nel sangue, torna a riaffiorare fra le corde di un gruppetto di dandies che non si è piegato ancora alla vittoria del postmoderno. Forse, un disco cosi Bianconi e Rachele non lo faranno mai più.(Il Direttore)
Giovanissimo e con una voce da orco. Billy Bragg & The Streets.
There’s a new boy in town.
Un uomo solo nella sua torre d’avorio. Intorno, la campagna inglese, Langley Park, la stazione di servizio e lo zoo. Il compito arduo di dare un senso alto al concetto di musica Pop. La ricerca di Dio in una canzone e la santificazione dei suoi idoli, si chiamino Elvis, Abba o Jacko. L’arte magica di infilare il perfetto ritornello, di ricamare l’arrangiamento che ti fa capitolare. Un genio dell’artigianato pop che diciamo sofisticato, perché siamo a corto di definizioni adatte. Paddy McAloon assomiglia sempre di più a Mosè, ma è semplicemente uno degli ultimi geni del pop inglese. Ci lascia la sua ultima creazione di canzoni che guardano all’olimpo del Pop come estrema frontiera possibile. L’urgenza di un cuore impavido e mai sazio, che si abbevera alla stessa fonte che fu di Paul MCartney o di Jimmy Webb, e che continua a immaginare un mondo di tenere canzoni perfette. Cosa si può chiedere di più? (Il Direttore)
Jonathan Clancy è una sorta di globetrotter dell’indie rock. Canadese di nascita, ha formato e militato in diverse formazioni e vive a Bologna da anni. La sua ultima creatura si chiama His Clancyness e annovera altri quattro membri, fra cui Jacopo Borazzo, ex Disco Drive. Le coordinate del suono His Clancyness sono quelle del rock obliquo firmato Pavement, Converse ai piedi e poca voglia di mirare in alto. Insomma, per tutti gli slacker rimasti orfani in un mondo di percorsi obbligati, una vero e proprio regalo. Interamente registrato nella wasteland post industriale di Detroit, Vicious è una collezione di numeri chitarristici non allineati. Dove quando si centrano melodie e frasi imperdibili, usando basso, chitarra e batteria, torna il sorriso e la giornata è salva. Insomma, se la vostra tazza di tè sono state Gold Soundz dei Pavement o Tiny Cities Made of Ashes dei Modest Mouse, Vicious è casa vostra. Difficile non capitolare davanti alla grazia di Machines o Run Wild, o non piangere di gioia abbracciando la nostalgia di mille primavere di Miss Out These Days. Indie Pop chitarristico sopraffino, merce rara in questi tempi randagi. (Il Direttore)
Affiliato da sempre a un suono ambientale tipico dell’etichetta per la quale da anni produce, la Kranky, Tim Hecker, compositore canadese, arriva al suo lavoro più importante e, per certi versi, sorprendente. La sua cifra è sempre stata quella di un cut up di fraseggi ambientali e creazione di paesaggi sonori frastagliati che ne hanno decretato negli anni un certo riscontro critico per gli appassionati di musica sperimentale e avventurosa. Per questo lavoro Hecker unisce le sue visioni sonore con l’utilizzo del piano preparato e dei rumori ambientali, oltre alle orchestrazioni fisicissime e malinconiche di musicisti appartenenti alla Bedroom Community, piccolo comunità elettronica fondata dall’islandese Valgeir Sigurdsson. È proprio la meravigliosa alchimia fra gli scarti sintetici di Hecker e la scenografia d’archi avvolgenti impostata da Ben Frost, che genera passaggi brucianti da colonna sonora di una catastrofe scampata, in cui malinconia, senso di perdita e rinascita vivono e crescono insieme. Mai come in questo disco Tim Hecker riesce a ergersi come l’unico narratore di un possibile mondo nato vergine dopo i Disintegration Loops di William Basinski. Una fenice che nasce dalla macerie, pulita da qualsiasi ferita del ricordo. Un disco di una tenera e terribile intensità, in cui immergersi è un dolcissimo dolore. (Il Direttore)
I primi minuti della nostra vita dopo la morte; l’inizio di un viaggio forzatamente inconsapevole registrato nelle ultime scariche elettriche del cervello, un percorso probabilmente dedicato alla “dialettica” tra oligodendrociti e cellule di Schwann. Il capolavoro di Bobby Krlic ci soprende ancora in vita e ci accompagna in un tunnel lugubre e glaciale dove avremo modo di riflettere sulla dissolvenza del nostro esistere, circondati da spettri sonori avvolgenti e droni impalcabili in un climax tanto seducente quanto spietato. Imperdibile, essenziale, definitivo. (Giorgio Pilon)
L’uomo è in gran forma
Finalmente restituito alla melodia ovattata.
La sorella Fiery Furnaces sguazza in mare power pop con impareggiabile bracciata sinuosa
In un’epoca in cui i superlativi si sciorinano come fossero mance e il super io si nutre di elogi oltre logica, il duo francese che ha portato l’elettronica da ballo a non nascondersi più e a non temere l’eccesso, cambia il livello della sfida. Non più techno, non più french touch, ma una personalissima Disneyland dove i due monellacci robot giocano a piacimento con tutti i riferimenti possibili, sbattendosene altamente della mezza misura. RAM e’ comunque un monumento eccessivo che ha ovviamente diviso, la cui ansia di andare oltre, di non limitarsi, ha lasciato un po’ di adoratori per strada, impegnati a chiedersi se tutto fosse accettabile. Il racconto di Giorgio Moroder himself sulle istanze lontane di RAM, l’AOR elevato a valore di vita, Nile Rodgers, gli Steely Dan e la modernità che fa capolino solo attraverso gli ultrasdoganati Panda Bear e Julian Casablancas. E in mezzo, Pharrell e Get Lucky, un pezzo che semplicemente dà inizio alla festa. Un festa alla fine dell’universo possibile, senza potersi chiedere se ne valga o meno la pena, senza sapere cosa valga veramente la pena. RAM: l’unico monolite possibile per il crepuscolo del super Io, con due robot a guidare le danze. (Il Direttore)
Wire, Feelies, Pavement, l’indie rock chitarristico tutto.
Will the circle be unbroken.
Mai una delusione. Longevi e sempre ispirati.
Più sonici di sempre.
Il Cane Ciuff potrebbe essere il tormentone dell’anno tanto quanto un sovradosaggio di zuccheri per un diabetico. Cosmos e le intenzioni di Carlos Valderrama e il suo combo di inguaribili romantici divideranno sicuramente. Come accettare un’ipotesi leggera di mondo vintage in multicolor quando il Paese reale affonda nel fango? In che modo abbracciare l’idea che la retromania è un vestito coloratissimo e la cocktail music un dovere morale? Probabilmente non ci sono risposte o forse tutte le risposte sono valide. Intanto la banda napoletana affronta la seconda bellissima fatica riuscendo laddove il primo episodio lasciava ancora qualche residuo dubbio sul puro esercizio di stile. Perchè qui è tutto una questione di stile. Gli Steely Dan e Napoli Centrale, Umiliani e Morricone, il concetto che la “elevator music” sia lì a proteggerci e noi non ce ne fossimo mai accorti. Il Cane Ciuff e il suo dolce pop domestico, ma anche la partenza jazzata in levare delle Intenzioni del Re, la sospensione tropicale di Vederti Distante che avrebbe fatto felice uno come Marcos Valle. La meraviglia assoluta di Laura, un aristocratico r’n’b bianco sincopato, che potrebbe aver chiuso Gaucho, definitivamente. Insomma leggerezza e profumo di Martini e Bacharach, ma anche una consapevolezza pop che cresce e lascia pregustare evoluzioni interessanti per Valderrama e soci. Sempre che il Paese non sprofondi o non cediamo alle ansie della pesantezza. Que viva Fitness Forever! (Il Direttore)
Il ritorno di Stephen Pastel e il suo pop fatto di obliquità cercate, melodie prese sempre di sbieco, indolenza e poca voglia di luci della ribalta. È il pop britannico figliato dal dopo bomba della fine degli Smiths, con Sarah Records e Postcard come numi tutelari e lo shoegaze e la Creation come dirimpettai. Un arte di costruire canzoni pop apparentemente innocue ma che entrano dentro dalla porta di servizio, che genererà l’epopea scozzese dei Belle & Sebastian, di cui i Pastels sono fieri concittadini e progenitori. Qui, quella meravigliosa indolenza pop è intatta, fra canzoni dolci, chitarre di velluto e un cubismo melodico che sfugge alle definizioni. Burt Bacharach a passeggio con i Pavement, l’etica delle piccole cose e una dolce ribellione al mondo delle certezze e dell’individualismo vincente. Vette basse, per chi alla corsa senza freno della vita preferisce continuare a leccarsi dolcemente le ferite. (Il Direttore)
I cancelli di Laurel Canyon.
Al mantello di Neil Young si aggiungono le dolcezze del pop anni settanta
Cantautorato da jazz spirituale.
Il fiume dei sogni: Smog on the water.
Risultato doloroso. I Perturbazione sono sempre stati nei primi dieci della nostra classifica, sempre. Trovarli qui è un misto di delusione da innamorati e sgomento per il cambiamento. Come dire, Luca Carboni no. Quei synth dance che girano a vuoto, nemmeno. Tra poco saranno a Sanremo e ci costringeranno a comprare Sorrisi Canzoni e TV per vederli in copertina e a tifare per loro in una manifestazione dove ha vinto Alice l’ultima volta che l’abbiamo seguita. Perché gli vogliamo ancora bene, e quindi gli auguriamo Buon Giorno, ma soprattutto Buona Fortuna.
(Sei incaricato di produrre un disco tributo. Puoi scegliere. A chi? Quali gruppi e per quali canzoni (numero a scelta)-esempio. Tributo ai My Bloody Valentine: Pavement “Soon” ecc… ma anche Tributo a Mino Reitano: Black Flag “Gente di Fiumara” ecc…)
Tutti molto “creativi”.
Sarebbe una meraviglia vederli realizzati.
Eccone una selezione:
“Chitarra Romana” In The Nursery
“Tanto Pè Cantà” Boyd Rice & Friends
“Alla Renella” Triarii
“Sinnò Me Moro” Sol Invictus
“Sor Fregnone” Ian Red
“Er Cortelluccio” Blood Axis
“Quanto sei bella Roma” Ain Soph
“La Società dei Magnaccioni” David Tibet (solo)
(Giorgio Pilon)
“Talk Talk” Japandroids
“Eden” Low
“After The Flood” Robert Wyatt
“Happiness Is Easy” Antony & The Johnsons
“Desire” Swans
“Life’s What You Make It” Tool
“New Grass” Radiohead
“It’s My Life” Bill Callahan
“The Rainbow” Oneohtrix Point Never
“Ascension Day” Mogwai
“Such A Shame” Tindersticks
“My Foolish Friend” Liars
“I Believe In You” Goodspeed! You Black Emperor
“Runeii” Burial
(Stefano Bianco)
“Nessun dolore” Daft Punk
“I giardini di marzo” Tindersticks
“Ancora tu” Prefab Sprout
“Il nostro caro angelo” Josh Rouse
“Fatti un pianto” Pet Shop Boys
“Con il nastro rosa” Steely Dan
“Anima latina” Marcos Valle
“Due mondi” PJ Harvey & Nick Cave
“The Rainbow” Oneohtrix Point Never
“Sì, viaggiare” Pavement
“Il tempo di morire” Captain Beefheart
“E penso a te” The Blue Nile
“La canzone del sole” Kurt Cobain e I Camillas
(Il Direttore)
“Gymnopedie No.1” Ultramarine
“Save A Prayer” Robert Wyatt
“69 anne erotique” Morrissey and Elizabeth Frazer
“Computer Love” Offlaga Disco Pax
“Walk On By” The Pastels
“Get Lucky” Prinzhorn Dance School
“Tainted Love” Edwyn Collins
“Lost In Music” Low
“In The Air Tonight” Scritti Politti
“The lamb Lies On Broadway” The Fall
(Bruno Grassone)
Qui si cerca sempre di cristallizzare i periodi di gloria musicale che la nostra piccola bottega si vede passare attraverso, marchiandoli a fuoco con le etichette che li fotografano. È stato così per il suono dell’aspirapolvere della Load, la carambola new wave della Captured Tracks e oggi è ancora così per il rigore oscuro e post industriale della Blackest Ever Black, l’etichetta più nera che ci sia sul pianeta terra. Dal ventre della bestia del sud dell’Inghilterra, con ancora fra le dita la fuliggine della Sheffield dei Cabaret Voltaire e nella testa i rintocchi lugubri della fabbrica di carne dei Throbbing Girstle, un manipolo di compositori elettronici si mettono al banco e disegnano il nulla dell’Europa della crisi. Un vuoto nero pneumatico, dove non c’è spazio per la danza. Ipotesi di colonna sonora per il crollo del capitalismo nell’emisfero occidentale, disegnato con un rigore in bianco e nero che non resta che ammirare, per chi ricorda le gesta di altre factories eroiche come Fast Products o New Hormones. Dalla fucina mai eccessiva ma puntuale della BEB, eccovi il definitivo viaggio terminale del Colonnello Kurtz. Solo l’introduzione vale il prezzo del biglietto “raccolto da una serie di cassette ritrovate in un mercato di Port Moresby, probabilmente registrate durante gli anni ’80 da un gruppo di missionari cristiani prima della loro inspiegata scomparsa”. C’è bisogno di altro? Dentro sinfonie di pioggia tropicale, paludi infestate da coccodrilli e cuore di tenebra. Abbandonatevi.
Il maschio dell’enigmatico duo Hype Williams alla prima vera prova solista. Alfieri dell’ala più narcolettica del fenomeno ipnagogico. Canzoni precarie che spariscono prima di darsi forma, suoni che consciamente ambiscono a muzak da sottofondo di vite frenetiche. L’era dell’Ipad rallentata da un trip hop vaporoso e sfuggente. Qui si parla d’amore, ma quando finisce. Messaggi lasciati in segreteria, conversazioni tagliate sul filo e piatti che si rompono intramezzano spezzoni di canzoni mai paradossalmente cosi a fuoco. Tappeti di archi che guardano a David Axelrod come a un DJ Shadow a corto di vinili con cui giocare. Senso di abbandono e dolcezza. Love will tear us apart.
Velluti, luci soffuse e caldo uterino. Everything But The Girl e Sade declinati elegantemente per questi tempi angusti. Un’eleganza quasi sovraesposta per canzoni che partono dall’r’n’b, ma arrivano in camera da letto con sospiri jazz che leccano le ferrite, dolcemente ma in profondità. Da rimanere in cameretta quando fuori piove, meglio se non da soli. E One Of Those Summer Days è proprio il vento caldo di un’estate al tramonto che vorremmo non finesse mai.
Band islandese che si svelò al mondo come collettivo orchestrale ricco e quasi sinfonico, ma che con Enter 4 fa il suo ingresso di diritto nell’Olimpo del Pop d’autore. Canzoni che si portano dietro la sensibilità fragile e intensa di certi cuori nordici come Kate Bush o Jonsi, ma risolvono una sensibilità barocca in numeri di pop adulto che osano anche guardare a gente come Prefab Sprout o Donald Fagen. I Feel You o Myself si nutrono ancora di quelle velleità quasi “da camera”, ma scoprono dettagli AOR e spunti di pop jazz che sorprendono per la certosina capacità di amalgama. Uno dei dischi più eleganti dell’anno.
La loro fortuna è di non sapere che sono bravi. Il duo marchigiano di stralunati musicisti al ribasso, anti figure quasi felliniane che usano il lo-fi come nessun altro nella penisola, arrivano alla seconda prova in lungo. Dopo un primo disco che ha trovato un pubblico improbabile, dai bambini che imparavano a memoria i loro testi surreali ad adolescenti senza speranze che ne sposavano le istanze di totale disallineamento, i due pseudo fratelli qui, forse senza accorgersene, iniziano a fare sul serio. Canzoni che si muovono su frasi acustiche che scelgono la malinconia e lasciano da parte il gioco, parole da ricordare a memoria e numeri quasi battistiani per un duo che continua a prendersi gioco di sè, quasi più per difesa che altro. Per quanto riusciremo ancora a proteggerli?
Dobbiamo andare a sciare. Insisto sul verbo e sulla sua declinazione, “dobbiamo”. Non ci domandiamo realmente perché, ma andiamo. Forse la nostra ubicazione alpina, l’horror vacui dei week end da pianificare, non saprei. Non piace realmente a nessuno di noi, costa delle cifre insensate, arriviamo a fine giornata stremati. Innervositi. Io, di sicuro. Ho soprattutto male ai muscoli dorsali, ma non per l’attività sportiva, quanto per le pause, in cui il freddo mi assale e cerco di rannicchiarmi, di fare entrare la testa come un carapace abbandonato alle Isole Faroe. Oggi la giornata è meteorologicamente drammatica, tira un vento polare in direzione orizzontale. Temo possa amputarmi il naso. Nevica sottilmente, in un modo maligno, come mille spilli buttati a caso. Ma a caso nemmeno troppo, perché diversi mi arrivano dritti in faccia. Tengo duro pensando al nuovo disco di Malkmus, quell’uomo mi mette di buon’umore. Il suo recentissimo Wig Out At Jagbags me l’ha restituito in grande forma, con l’eco dei Pavement e i vantaggi delle frequentazioni con Beck del precedente Mirror Traffic. Un signor disco. E quello ascolterò negli spazi vuoti di questo nulla innevato e inospitale. Lì troverò riparo e comprensione. Scarico dal bagagliaio i caschetti delle bambine, le maschere, il borsone con i doposci e, infine, il mio zainetto. Dentro ho guanti, sciarpa, due bustine di Oki per l’inevitabile emicrania, il Venerdì di Repubblica e, cristo, non c’è l’iPod. Non posso crederci, l’ho dimenticato. Niente Malkmus. Si mette male. Ci sono persone che non conosco, vengo presentato. Come al solito equivocano la mia passione musicale, il fatto che quella sia la mia professione. “Ti piace Lorde?”. “Non lo conosco”. “Ma non è una ragazza?”. “Non la conosco”. “Mia figlia ascolta solo Lady Gaga. Io la trovo geniale, che ne pensi?”. “Non ne penso”. Chiedetemi qualcosa di Malkmus, vi prego, qualsiasi cosa. “E Avicii?”. “Non lo guardo, mi ripugna. Detesto Maria De Filippi. “Ah! No Amici! Avicii, quello di Hey Brother”. “Non ho la minima idea di chi sia”. È chiaro a tutti come io sia un disadattato, non so nulla della musica che funziona, davvero nulla. E la cosa buffa è che non lo faccio nemmeno apposta. Non la incrocio mai, mi dedico sempre alle mie cose, ai miei adorabili gruppi minori. Manco un gesto snob, è che mi piacciono davvero e il resto, banalmente, non mi interessa. La temperatura, intanto scende, e ripariamo in una specie di brasserie. Siamo in Francia. Un toast o meglio, un croque monsieur come lo chiamano qui, costa nove euro e cinquanta. Niente male. Il locale è pieno e i video trasmettono partite di calcio inglese e triathlon. Tranne uno, che alterna video musicali. Al momento, a sorpresa, c’è Billy Joel. Sperare nel video di Lariat, il singolo di Malkmus, mi pare davvero troppo. E pensare che sarebbe appropriatissimo, ci sono ragazze con maglie a righe anni sessanta e i sottotitoli proprio in francese, varrebbe come un raggio di luce in questa spianata degna di Amundsen. E poi, come sempre, avviene l’imprevedibile. Tutti gli schermi e dico tutti, si sintonizzano improvvisamente sul video di Boombastic. Non posso credere a quello che sta succedendo: un gruppo di inglesi sbatte i boccali di birra a tempo, dal fondo della sala iniziano a urlare mister lova lova, un paio di francesi mi dicono “Cette chanson est magnifique, nous adorons tous Shaggy!!!”. Tutti adoriamo Shaggy? Una bionda con doposci fuxia si mette a ballare, mentre Shaggy fa dei gesti incomprensibili con la camicia aperta in televisione. Si stanno divertendo come pazzi, si muovono a tempo persino due settantenni mummificati dal gelo che fino a pochi minuti prima credevo fossero stati ibernati per ragioni medico religiose. Shaggy è il comun denominatore di questo piccolo parlamento europeo di fenomeni in paraorecchie e giacche imbottite di piume d’oca. E io sono fermo e desidero Malkmus. Lo ripeto, un disadattato. Per giunta la mano destra mi sanguina, perché mi sono ferito mentre tentavo di stringere gli scarponi a mia figlia. Ho male. Shaggy la finisce, se dio vuole, e tutto, come d’incanto, torna alla normalità. Il video vicino a me si sintonizza sulla partita dello Swansea. Fine. A breve cala il buio e la temperatura diventa insostenibile. Torniamo a casa, in macchina tutti dormono. Parcheggio, salgo, entro. Mi faccio una doccia, mi sdraio e recupero il mio iPod. Folder, H-I-L ecco, M. seleziono Malkmus. Ce l’ho fatta, ho atteso questo momento per tutta la giornata. La prima canzone è Planetary Motion, dura tre minuti. Al quarantaduesimo secondo sto già dormendo.
Playlist
(cose che mi sono piaciute)
Dischi
Stephen Malkmus & the Jicks Wig Out At Jagbags (Domino)
Bè, se avete letto sopra, non credo di doverlo spiegare.
Altro Sparso (la Tempesta)
I singoli delle “stagioni” più due inediti. E la confezione con la ragazza che abbraccia il cd.
Altroché.
T-Rex Electric Warrior (Warner Bros, 1971)
I danced myself out of the womb.
Is it strange to dance so soon.
Lucio Battisti Vento nel vento (1972)
Banalmente, una canzone meravigliosa.
Libri
Sam Knee A Scene In Between (Cicada)
Foto dalla scena indie inglese dal 1983 al 1989. Formidabili quegli anni.
Peter May L’uomo di Lewis (Einaudi)
Ebridi, costa occidentale scozzese.
Il corpo di un uomo con un tatuaggio di Elvis viene trovato sepolto nella torba
Carlo Bordone Cinquanta per ‘60 (Guide pratiche di Rumore)
Scritta e impaginata benissimo. Propositiva, mai banale.
In allegato a Rumore di gennaio.
Ci sono dentro Attilio Mineo e Margo Guryan, non aggiungo altro
altro
i tennisti svizzeri
Sua Maestà Roger Federer e Stan ‘The Man’ Wawrinka.
Comunque vadano gli Open d’Australia, grazie di tutto.
Migliori 10 dischi del 2013:
(I professionisti del genere possono spingersi fino a 20)
Miglior concerto dell’anno
Miglior canzone dell’anno
Miglior ristampa dell’anno
Disko minkia
Il tributo
Sei incaricato di produrre un disco tributo:
Puoi scegliere. A chi?
Quali gruppi e per quali canzoni (numero a scelta)
(esempio. Tributo ai My Bloody Valentine:
Pavement “Soon” ecc… ma anche Tributo a
Mino Reitano: Black Flag “Gente di Fiumara” ecc…
Nel ricordarvi che Backdoor sarà aperto anche domenica 22
e tutto lunedì 23 e 24
Vi invitiamo al Gran Galà di martedì 24 mattina (dalle 11,30 in poi)
Abituale bicchierata indie rock con contorno di panettone di farro,
Spumante Villa Jolanda (o vitigno di pari levatura),
regali (per chi se li è meritati) made in Texas,
compilation di Natale e imprevisti assortiti
Vi aspettiamo
Signor Franco e Maurizio
Ingresso forse libero
dei soldi verranno estorti agli spettatori dal conduttore.
Terza uscita live della trasmissione ‘Spessore’.
Vari ospiti. Cazzi vostri.
La trasmissione più iconoclasta, provocatoria e squisita dell’etere piemontese riapproda sul palco dello United per la terza volta in tre anni.
Irriverente, caustico, cinico, divertente più dei video porno di vostra cugina su ‘pornoitaliano.com’, Mario ‘Spesso’ conduce la più longeva trasmissione dell’area, dal nome ‘SPESSORE, in onda sui 105.250fm di Radio Black Out da ben 21 anni.
Essendo ormai un vecchio stronzo, cerca di provocare i piàù giovani stronzi con tesi e pungoli d’ogni tipo, passando dalle teorie sui massimi sistemi a vari metodi di assunzione di stupefacenti, dal nazismo strisciante dell’utenza sui servizi pubblici di trasporto all’idiosincrasia per la tecnologia. Il peggio del vostro peggio, il meglio di quel che potrebbe non essere.
Colonna sonora: l più variegata possibile.
Durante lo show avranno luogo svariati reati.
Backdoor, Torino: siamo aperti. A cosa? Grossomodo a tutto. E a tutti.
In particolar modo a quelli che davvero non pensavate potessero esistere. E invece esistono, sono il variopinto circo di clienti – più o meno occasionali, più o meno appassionati, più o meno folli – di uno storico negozio di dischi specializzato in vinile e intento a vivere l’amore per la musica dall’altra parte della barricata: un luogo talmente vero e talmente incredibile da essere più pop di un coretto dei Beach Boys.
Ecco, allora, sfilare il piastrellista devoto al funky e alle donne di colore, l’audiofilo sorpreso dalla moglie con uno stereo in un appartamento affittato di nascosto e l’uomo che ha inventato i Massive Attack. Per non parlare dell’immigrato slavo che voleva morire sotto la sezione reggae, dell’indomabile Sentimentalista o del fan degli Alarm con documenti compromettenti per la FIAT…gente strana?
Se la pensate così, non vi siete mai trovati di fronte a quei clienti che, incerti su cosa comprare, hanno chiesto: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?”.
“Ad afro punk come stiamo?”. “Scusi, ma cosa intende per afro punk?”. “Mah, tipo quello lì, Jack Morriso, quello dei The Doors. È morto no?”
“Ce l’ha quello dei Led Zeppelin con la supposta in copertina?”
MAURIZIO BLATTO
Nato a Torino nel 1966, ha accantonato sul nascere una carriera da avvocato preferendo Backdoor, storico negozio di dischi cittadino. Collabora da anni con la rivista musicale “Rumore”. La sua canzone è How Soon Is Now? Degli Smith. Dovendo scegliere, sceglie vinile. L’ultimo disco dei Mohicani è il suo primo libro.