4th of July

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Molto bene. Sono arrivato a casa e il Mamma Santissima del Compound dove abito a Houston, Texas, la città che neanche 10 apocalissi nucleari potrebbero smuovere dalla sua tranquillità, mi ha invitato a vedere i fuochi d’artificio, lanciati dal Country Club di Tanglewood.

Un Country Club dove, per ragioni che ancora oggi non riesco a capire, non puoi essere membro se sei di religione ebraica.

La postazione per vedere i fuochi e’ di pregio, vicino alla cassetta delle lettere, davanti all’uscio di casa mia.

Nel giro di 10 minuti arrivano babbioni e babbione varie. Trionfo di acuti, voci stridule, saluti e amicizie di vecchia data, riesumate per 5 minuti. Per mostrare il mio entusiasmo, sfoggio una bottiglia di Barbera.

Faccio notare che la nostra vista e’ completamente bloccata dagli alberi davanti.

Ma ormai le aspettative sono rivolte al vino italiano, che porgo gentilmente a tutti.

La mia vicina di casa rifattissima, mi racconta dei meravigliosi fuochi di Macy’s a New York e di come fosse stato il più bel 4 luglio della sua vita. Un’altra, mi mostra la foto della casa di George Clooney sul Lago di Como, immortalata sul suo cellulare. Il Mamma Santissima prova a far partire una marcetta che accompagni la vista dei fuochi, dal suo telefonino. La moglie lo stoppa seccata, mentre lui è  già trasportato dalla solennità del momento. Lei le dice “Vogliamo parlare”. Lui spegne il suo telefonino e si accontenta delle luci.

“Alla fine ne spareranno uno o due più in alto”, dice qualcuno, mentre i primi fuochi si aprono nelle loro mille luci. Ma dietro agli alberi,come fossero aloni.  Con la Speranza di vedere prima o poi la solita cascata di luci e fare”ooh”, immaginiamo la loro conformazione, fra i rami degli alberi e speriamo.

C’e’ entusiasmo, non c’e’ che dire. Per una cosa che durerà 10 minuti scarsi. Persone che abitano a 10 passi di distanza, che non si vedono da 6 mesi, discorrono come vecchi amici di lunga data. Figli all’università, tempo che passa, il servizio spazzatura che non verrà questo weekend.

Verso la fine arriva un tizio in bermuda, sandali e calze bianche.

E’ il classico tipo che la sa lunga, tipo quelli che passeggiano in spiaggia sul bagnasciuga, con le mani dietro la schiena e sanno tutto, ma proprio tutto, sia della terraferma che di quello che succede in mare.

Sparano gli ultimi due fuochi. Nessuno più in alto dell’orizzonte negato dagli alberi, nonostante le certezze che qualcuno, alla fine, avesse pensato anche a noi. In sostanza, non abbiamo visto nulla, Tranne qualche bagliore fra le ombre degli alberi.

L’uomo, mani dietro la schiena, dice calmo, nel silenzio “things used to be better, is always like this”.

(Mauro Fenoglio / “Il Direttore Risponde” 2019)

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8-il calendario dell’avvento di Backdoor

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8-James Brown “I Feel Good” (1965)

https://www.youtube.com/watch?v=ETNWrulIDic

 

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James Brown non si è mai sottratto al Natale funky, ma questo estratto invernale con tanto di ingresso sugli sci è fenomenale.

Momento cruciale 1:00 quando, in maglione da tutti a Cortina, inizia a ballare. Come possa un uomo muoversi in quel modo è un mistero che mi affascinerà in eterno.

Mi piacerebbe una volta sola nella vita avere a disposizione trenta minuti di simili movenze e presentarmi a casa senza dire nulla e poi piazzare lì quello sdrucciolamento sovrumano dei piedi.

Oggi è festa, ma Backdoor è aperto e se passate, venite a trovarci ballando.

Per chi sta a casa, invece, extra mega bonus: qui sotto il resoconto eccezionale di una nottata “black” firmata dal nostro Direttore, inviato speciale nel cuore d’America. Get in the groove!!

 

JOYCE SINGS THE BLUES

 

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Le cose stanno cosi. Stiamo girando per le strade semideserte di Memphis Tennessee. Stormi di di motherfuckers con la canotta e i jeans ben sotto la linea naturale della vita, s’ammassano intorno a cofani di macchine luride, ai bordi della strada. Passiamo spediti, con la paura di fermarci al primo semaforo rosso. Siamo a Memphis da due giorni e in fondo siamo turisti italiani. Per i motherfuckers parteggiamo, ma solo quando sono i protagonisti di un film di Spike Lee o solo dopo esserci commossi fra le sale interattive del Museo dei diritti Civili, al Lorraine Motel, dove misero fine al sogno. Vedersi la loro massa scura scrutare i vetri della nostra macchina che svetta pavida, è tutto un altro paio di maniche. Chissà perché, proprio mentre sfrecciamo, lasciando illesi l’ennesimo gruppetto gangsta a lato, ci chiediamo dove valga la pena finire la serata in gloria. Certo, il BB King Club in Beale Street ci ha accolto a pranzo. E addentando l’ennesimo panino con il pulled pork (maiale sminuzzato) in salsa BBQ, abbiamo ascoltato l’ennesima band blues, fare il suo sporco lavoro per i turisti. Tutto bene, applausi soddisfatti, zero rischi, ma noi mica siamo i turisti tipici da acchiappare con la prima Sittin’ on The Dock Of The Bay o Stand By Me da canticchiare gai. No, noi vogliamo THE REAL THING. Con tutta l’incoscienza del caso, digitiamo sul cellulare “Dirty. Blues. Memphis”. Ci appare la scritta WILD BILL’S e un indirizzo, non incluso in uno qualsiasi dei percorsi studiati a tavolino, nella camera d’albergo. Le foto mostrano un’insegna gigantesca piazzata su un edificio rosso, anonimamente incastrato in uno dei migliaia di anonimi spazi, ai lati di una qualsiasi delle strade della città. Fra il “Dai. E’ andata bene cosi e per fortuna non ci è successo nulla” e il “Non possiamo andare via senza aver ascoltato il vero Blues”, vince (incertamente) la seconda e ci avventuriamo verso la casa di Bill. Parcheggiamo a lato della grossa insegna ed entriamo. La band sta già suonando ad un volume vagamente esagerato. Un ragazzo con lo sguardo spento ci ferma all’ingresso. Con aria molto seria e cercando di mostrare una professionalità che non gli appartiene, ci indica che dobbiamo pagare 10 dollari ciascuno, per poterci sedere. Mentre il blues assatanato sta già avvampando la sala, il ragazzo mantiene un’aria impassibile e lo sguardo spento ma fisso, fino a che io non dico (quasi come una liberazione) “OK”. A quel punto, quasi avessimo firmato un contratto strategico, mi stringe la mano e formalmente mi apre la porta di casa sua. E casa sua è essenzialmente questa: una specie di garage con le pareti tappezzate di scritte e cartelli luridi, con il bancone in fondo e tavolacci buttati in mezzo. Al bancone una signora di colore con una cofana di ricci biondi e un signore più attempato. La cameriera ci porta il, diciamo, menù. Chicken wings (alette di pollo) impanate, patatine e birre (un paio di scelte). Punto. Non c’è bisogno di altro al Wild Bill’s. In sala fumano tutti, quasi fosse un segno distintivo della grande famiglia che gestisce il locale. Persino la cameriera ci porta le ineludibili alette di pollo e le birre, con una cicca dalla cenere in bilico precario, fra le dita. Volevamo The Real Thing. Eccola qui. Alla nostra destra la band. Un batterista di colore dalla tecnica jazz, un bassista lungagnone che sembra il cugino ancora più sfigato di Alex Chilton e un chitarrista sul trespolo che sa il fatto suo, e armeggia con l’arnese da navigato session man. Poi c’è lei. Joyce è una donnona fra i 50 e 60 anni. Completo nero, blusa e pantaloni. Capelli corti e biondi e una bocca che ospita una dentatura a corto di manutenzione. Ha lasciato da parte un paio di scarpe con tacco dodici gettate senza cura davanti a se e affronta la folla a piedi scalzi. Il pavimento è ovviamente in tinta con il resto del locale (dal punto di vista igienico) e mi chiedo cosa resti fra i piedi di Joyce a fine nottata. Volevamo The Real Thing. Il blues è assolutamente asciutto, radicale e ruspante. Lei guida la banda con una serie di ululati quasi belluini. Arringa, ordina, agita il braccio per indicare il ritmo. Tutti obbediscono. Si muove rabbiosa come un James Brown senza fronzoli e lustrini, aggredisce il microfono con la cartavetro della sua ugola. Sudi solo a guardarla. Ogni tanto un omuncolo che sembra ricuperato dalle sponde del Mississippi, si avvicina e inscena una danza sinuosa, quasi fosse una versione barbona di Bez degli Happy Mondays. Il matto del paese assurto ad elemento scenografico, che fa la mossa del pescatore che tira la canna a sé per invitare le donne a ballare. Mentre lei ulula, sibila “legendary” ogni volta che introduce un assolo del chitarrista e incendia semplicemente la sala. Volevamo the Real Thing. Seduto davanti a lei una specie di nonno col bastone, che se la ride, guardandola ansimare. Chiede se ci siano delle richieste, ma ricorda di scegliere pezzi che non abbiano più di due note. Ci dice che è stanca. Sono le 11 e andrà avanti fino alle 3. Non sapendo cosa chiedere, andiamo sul sicuro ed entusiasti urliamo I Feel Good di James Brown. “James Brown è un uomo” ci risponde secca, trafiggendoci con lo sguardo. Tremiamo. Concede un “Va bene, honey, ma venti dollari mi daranno la carica”. Obbediamo. Quello che segue è difficile da raccontare. Ho chiuso gli occhi per trenta secondi, per provare ad associare quello che usciva dalla bocca di Joyce agli ululati eroici di Merry Clayton la notte di Gimme Shelter. Avevo quasi paura a riaprirli, e trovarmela stesa sul pavimento sporco, in preda a crampi di stomaco. Da bianco, culturalmente educato, benestante e con tutti gli ammortizzatori sociali ben definiti, che non sa neanche come si sillaba “ghetto”, stanotte ho avuto il mio battesimo nella melma del dirty blues. Joyce m’ha afferrato per le palle e, a forza di ululati e acuti di cartavetro, mi ha tirato su e mi ha redento. Altro che I Feel Good. Joyce piazza almeno due “legendary” per altrettanti assoli e ordina al batterista di accelerare e rallentare su un interminabile finale. The Real Thing. Una cosa che mi viene da definire punk, tanto alla fine è basica; tanto è lontana da qualsiasi possibile idea di posa, costruzione scenica o attitudine. Ore di danze assatanate, ritmo e urla, di cui è difficile condensare il racconto. A un certo punto le ho chiesto di cantarne una di Aretha. Quella che lei sentisse più vicina al suo cuore, azzardandomi ad avvicinare il mio palmo della mano al suo petto imponente. Voleva essere un gesto simbolico, che incrinava dolce la superficie, per cercare la verità dell’anima di Joyce. Illusione di un povero bianco, educato, che pensa che lo spettacolo lo decida lui. Joyce mi confessa, tutta occhioni dolci, che Aretha sia una delle sue massime ispirazioni, guardandomi gigionesca. Per i 20 dollari che le ho piazzato in risposta, sarebbe stata capace di rivelarmi, in quel preciso momento, la sua affezione dai tempi dell’infanzia, per i Judas Priest. Comunque Chain Of Fools è planata su una Hound Dog rallentata e dilaniata alla radice. La pioggia dei lustrini di Elvis, trasformata in una perlinatura paludosa, per permetterle di sibilarmi “I love You Baby” una quindicina di sensuali volte. Chiaro, sempre fra due o tre “legendary” d’ordinanza al chitarrista. Anche la vecchia con i ricci biondi, munita di improbabili scarpe bianche col tacco, è arrivata in mezzo al dancefloor stipato di giovani hipster, turiste caraibiche e drop out locali, per mettere in mostra le sue mosse. Un baccanale blues. Solo verso le tre del mattino, sudata come un cavallo da corsa, Joyce ha indicato che andava bene cosi. Ha preso il barattolo pieno di biglietti da venti dollari ed è andata a sedersi. Delle scarpe nemmeno il ricordo. Stremati l’abbiamo ringraziata. Lasciamo il Wild Bill’s con gli occhi lucidi e gli abiti impregnati di fumo, come solo dopo una serata in birreria del Nord Italia, negli anni ottanta. Non prima che il chitarrista mi confessi di essere stato in Italia a suonare. Per strada, “Non ho fatto tanti soldi, ma è stato cool”. Anche in quella città con le due X al confine con la Francia. Ventimiglia, mi affretto a suggerire. Il bassista sfigato, probabile parente dei Big Star si congeda, confessandomi che aveva provato a lasciare Memphis per cercar fortuna lavorativa altrove. Alla fine ha dovuto desistere e ritornare. “Non c’è questo spirito” mi ha detto. “Non puoi passare serate come questa, con lei”. Mi indica Joyce, sguardo fisso e manone rapide a contare con precisione i biglietti verdi accumulati. Gli ho stretto la mano, non c’era altro da dire. Mi sono svegliato la mattina dopo in una stanza d’albergo di Memphis. Il ruggito di Joyce ancora fra le orecchie, e almeno 60 dollari in meno nel portafoglio. Cercavamo The Real Thing. Eccola qui.

Mauro Fenoglio

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Il Direttore risponde: L’impossibile impresa di dover spiegare La Terminalità

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E con piacere che torniamo ad ospitare, all’interno della sua Sua rubrica “Il Direttore risponde”, la pregiata firma, appunto, de Il Direttore.

http://www.backdoor.torino.it/?p=1029

 

Sollecitato dalle numerose richieste di delucidazioni su uno dei suoi temi più cari, La Terminalità, eccolo cimentarsi in una puntuale, quanto ardua, analisi dell’argomento.

Buona lettura.

IL DIRETTORE RISPONDE:

L’IMPOSSIBILE IMPRESA DI DOVER SPIEGARE LA TERMINALITA’

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È  passato molto tempo. Forse troppo. Non è dato sapere perchè non ci siano state risposte a domande mai fatte in tutti questi mesi. Un silenzio assordante. “Hello, Is There Anybody Out There?” sibilava Roger Waters. In un’epoca troppo distratta a battere il pruriginoso record mondiale di tempo di reazione alla nuova notizia, abbiamo preferito non cercare chi fosse effettivamente là fuori. Abbiamo lasciato che le carambole inutili dei trend e lo sgomitare per essere in prima fila facessero il loro corso e siamo tornati pazienti a dare un segno, solo quando ci è sembrato il caso di farlo. L’argomento buono è la terminalitá. Cosa si può definire terminale nella musica contemporanea? Già formulando la domanda, dichiariamo subito che il concetto vuole essere necessariamente vago e non immediatamente catalogabile. Se no, che gusto c’è? Nessun assoggettamento a definizioni precise e nessuna conferma da ricercare. Il concetto di terminalità lo vestiamo da questa posizione privilegiata e defilata, come pare a noi. Prendere o lasciare. Ne intercettiamo il senso in opere in cui respiriamo un senso di crepuscolo, di avvicinamento a una fine, una qualsiasi. Ripartenza prevista o meno, poco importa. Preferiamo una fine non dichiarata a progetto, che incombe senza farsi annunciare, oltre l’ultimo solco del vinile. La nostra terminalitá non è un vessillo imbracciato dagli abbattitori delle certezze sociali. Pur essendo cresciuti dopo il ’77 e avendo visto il martirio del nuovo Gesù Cristo nel ghigno da barbaro di Johnny Rotten.  Non è la sua tribolazione il nostro obiettivo. Non sono i flagellatori industriali della civiltà occidentale, i nostri alfieri terminali. Pur avendo un amorevole rispetto per i giri pangenici di Genesis P Orridge e avendo subito il fascino della sua wasteland narrata, non sono i suoi territori sadici quelli che intendiamo affrontare. Il No Future che non fa prigionieri, esibito per scioccare l’establishment, non è il passaporto alla terminalitá che qui ci seduce. L’approdo terminale prevede la previa frequentazione intima dell’establishment. Il rispetto delle sue regole, l’assaporamento dei suoi agi e dei suoi vizi. L’eroe della terminalitá ha danzato sui velluti del mainstream, ne ha sunto il dolce nettare fatto di importanti mezzi a disposizione, donne belle e intrigate dal genio, droghe spesso letali ed effimere sicurezze. E poi, per qualche ragione e in modi non sempre gloriosamente drammatici, l’eroe terminale abbandona il campo delle certezze borghesi o viene dolcemente accompagnato alla porta. Mai con rese necessariamente dichiarate o eroiche, uscite di scena drammatiche e corredo di lacrime di chi ne piange la dipartita. L’uscita dal mondo ufficiale del privilegio avviene quasi con dolcezza, senza che ce ne sia immediata coscienza. Spesso se ne storicizza il disagio solo anni dopo. L’eroe della terminalitá è uno che non sa di esserlo perché non aveva nessuno che ne osservasse le mosse terminali. Altre volte, la terminalitá si assapora in necessari momenti di cesura artistica. Soprattutto per opere di grandi gruppi o artisti passate alla storia come capolavori assoluti, ma generati da un ambiente assolutamente doloroso e, appunto, terminale. Rapporti umani ridotti al minimo, parole non dette o mai esplicitate e tensioni  irrisolte. Amici di una vita che non lo saranno mai più. La terminalitá si abbevera di queste linfe mortali e genera mostri che si offrono al mondo come assoluti gioielli.

Solisti che escono dal gruppo, eroi orfani di lussi accarezzati. Tutti abbracciati nel loro personale piedistallo terminale. Chi per risorgere nuovo, chi per scomparire definitivamente nel nulla.

Tutto questo non ha esattamente senso compiuto. Ce ne rendiamo conto, ma il patto era chiaro fin dall’inizio: la terminalitá è un sapore di fine  che va, appunto, assaporato senza pretenderne un gusto acceso e immediatamente riconoscibile. Altre spiegazioni sarebbero completamente inutili. E crediamo di aver già detto troppo.

Passiamo, allora, a qualche spunto. In ordine sparso (e con l’idea che questa lista sia solo un inizio e non un approdo):

GLI ESCLUSI

 

Born To Be With You – DION

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Lui è un eroe della musica americana anni sessanta prima della British Invasion. Teen Idol prima, spezzato dall’eroina poi e finalmente cristiano convertito. Questo album ha sei canzoni su otto che beneficiano del Wall Of Sound di Phil Spector (altro terminale, pure lui). Gestazione complicata e poi riconosciuto come influenza da molti eroi della neo psichedelia anni novanta UK (Pulp, Primal Scream e Spiritualized).

 L’Amour – LEWIS

lewis

Randall A Wulff è un magico mistero irrisolto. Realizza L’Amour e Romantic Times come stampe private fra il 1983 e il 1985 a Los Angeles. Aria da playboy fuori tempo massimo, di bianco vestito, patinato e sguardo triste. Scompare misteriosamente dopo aver registrato i dischi, lasciando il conto da pagare al fotografo della copertina e al Beverly Hills Hotel dove ha soggiornato per mesi, circondato da donne bellissime. L’Amour è un percorso terminale nella notte, attraverso i sospiri di Lewis e il minimo accompagnamento di tastiera e chitarra. Indispensabile.

 Zucchero Filato Nero – MAURO REPETTO

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Finite le riprese del video di Nord Sud Ovest Est degli 883 in California, Repetto s’invaghisce della modella Brandy e si perde fra gli spazi del West. La insegue fra locali a Las Vegas e promesse di carriere cinematografiche. Cecchetto lo recupera per i capelli. Lo ritroveremo dentro al costume peloso di un personaggio di Walt Disney a distribuire volantini al parco divertimenti di Parigi. Brandy rimane un miraggio. Il suo sorriso sognato ad occhi aperti in una canzone che è una dichiarazione di resa definitiva. Un eco di sax che si perde fra strade di una città americana fuori orario.

 La fabbrica di plastica – GIANLUCA GRIGNANI

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I grandi mezzi di una major utilizzati per fare un disco da Battisti pre-borghesia assolutamente incendiario. Da li, solo cocaina, vuoti di memoria e paparazzate.

I CAPOLAVORI TERMINALI

 

Il solista da una parte a leccarsi le ferite del proprio travaglio o ad inseguire le proprie ambizioni, mai comprese da tutti gli altri. Oppure affetti che si scontrano, dame bianche che rovinano tutto, in posti altrimenti meravigliosi. Ecco qui i mostri che diventano gioielli.

Sinchronicity – THE POLICE

(Jung, Bowles e la nascita del super ego)

The Lamb Lies Down On Broadway – GENESIS

Rumors – FLEETWOOD MAC

(essere a Sausalito ma chiudere in uno studio i mille frammenti di un matrimonio che va a pezzi)

The Final Cut – PINK FLOYD

Gaucho – STEELY DAN

(haaah…l’ottavo pezzo di Gaucho….)

Smile – BRIAN WILSON

(perché’ il disco è suo)

Let It Be – THE BEATLES

(l’innocenza era già finita da un po’, ma volevamo ancora illuderci)

Moody Blue – ELVIS PRESLEY

(Il canto del cigno, un mese prima della morte)

E poi il declivio terminale di Battisti e Panella.

Da Don Giovanni fino a Hegel. Una pagina bianca con pochi caratteri sparsi, in mezzo al nulla.

Nessuna chiave per decifrare significati possibili.

The-Police-Ssynchronicity

The_Lamb_Lies_Down_on_Broadway

FMacRumours

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Moody-Blue

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I PASSAGGI DI FORMAZIONE

October – U2

(i quattro che si interrogano su come far coesistere fama e principi cristiani. Poteva finire tutto qui in un attimo, prima che diventassero una macchina da guerra)

New Adventures in Hi Fi – R.E.M.

(aneurismi e fotografie. Forse, inconsapevolmente, per loro finisce tutto qui)

Tunnel Of Love – BRUCE SPRINGSTEEN

(il fallimento di un matrimonio colto attraverso lo sguardo di Patti Scialfa ai lati del palco. Le certezze reaganiane un pallido ricordo e il crepuscolo del new pop in salsa USA quasi digerito)

u2 october

rem

Tunnel of love

FUORI ORARIO (qui è meglio non porsi domande)

Non ci sono lussi, ma sono documenti imprescindibili per immergersi nel concetto di terminalità.

Dogma – RosyByndy/Giurato/Fausto Rossi

(qui tutto viene spiegato)

Sara’ Per Te – Francesco Nuti

dogma

nuti


SUFJAN STEVENS – Houston 11 maggio, 2015, Jones Hall

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SUFJAN STEVENS – Houston 11 maggio, 2015, Jones Hall.

de Il Direttore

Dicono che la Main Street di Fredericksburg, caratteristica cittadina del Texas, incastonata fra le pieghe dolci della Hill Country, sia cosi estesa che, una volta che ti trovi a metà strada, fra i suoi due lati, ti sei già dimenticato perché avevi pensato di attraversarla. Tipiche esagerazioni texane dove il bello, si misura in modo entusiasta in unità di grandezza che lascino necessariamente a bocca aperta. Mi piace pensare che, quando Sufjan Stevens abbia pensato a una manciata di canzoni sul Texas, come parte del suo impervio progetto di musicare ogni Stato d’America, abbia avuto uno scatto di panico e gettato definitivamente la spugna, proprio pensando alla Main Street di Fredericksburg. Se non sbaglio, dichiarò proprio che, fra tutti gli Stati che avrebbe dovuto provare a descrivere in musica, il Texas era quello che lo metteva più a disagio. D’altra parte Sufjan è uno che sta bene solo quando sa di avere tutto sotto controllo. Come i compagni secchioni che però sono anche i nostri migliori amici. Non quelli con un centimetro di lenti da vista e un’incapacità congenita di rapportarsi con un mondo che sia altro da quello che studiano per ore, chini sui libri. Non quelli. Piuttosto i nerd che riescono, per dono dannatamente quasi divino, a essere sempre primi o quasi in classe ma hanno anche il pregio di esprimere la propria visione del mondo e condividerla con noi che gli stiamo intorno. Finiamo per perdonare il loro arrivare sempre e comunque primi. Siamo cresciuti insieme e ci siamo affezionati. Sappiamo che le loro vittorie rappresentano il loro limite congenito nel condividere completamente le nostre pene eroiche. Noi saremo ricordati per quell’unico trionfo, in un mare di sconfitte, loro non avranno mai il bacio della redenzione. Il loro controllo sulle proprie cose gli fa sempre tirare indietro il piedino all’ultimo momento. La loro congenita impreparazione a rischiare fino in fondo del proprio, li limita nell’abbracciare la fisicità imprevedibile del mondo. Sufjan è quel tipo di nerd, che preferisce pianificare a tavolino, imbrigliarsi nella progettualità e aspirare a quei traguardi alti che sono suoi di diritto. I suoi superlativi sono più concettuali che eroici. I suoi piaceri, più letterari che fisici. Eppure quest’uomo ha provato a riscrivere la Storia dell’America in musica, prendendo spunto dai suoi archetipi moderni più tipici e riconoscibili. Ha abbozzato il progetto, ma poi ha lasciato perdere quando ha capito che non ce l’avrebbe fatta mai. Ha alzato bandiera bianca, dopo un bilancio di pro e contro, piuttosto che immolarsi in un’impresa consumante, nell’era delle sintesi. Meglio essere saggi che pazzi. Eppure ci ha provato ancora, fra sinfonie di autostrade e odi a improbabili robot, con la mente pulsante di idee, per lo più rivelatesi incomprensibili. Non credo che Sufjan abbia sofferto per questo, circondato comunque dalla pletora di ammiratori eco-sostenibili da nuovo millennio, hipster con barba folta e curata e webzine comunque riconoscenti. Sufjan non ha sofferto e ha coccolato il proprio genio. Ha imbottito di fumetti, gadget e riferimenti new pop le sue ricerche, per mirare ai pieni voti, e si è sicuramente detto che era il mondo a non aver capito la portata delle sue ambizioni. Insomma, era tutto pronto per prepararci, noi anelanti il genio imperfetto e sanguinante di gloriose sconfitte, a distruggere di nuovo Babilonia e gridare contro il bello che avanza, inesorabile. Poi Sufjan ha scartato. Come quegli adorabili Nerd, che in fondo a una sfilza di otto nei compiti in classe, mentre noi arrancavamo aggrappati a sufficienze risicate, ci tendevano la mano, per mostrarci le loro ferite, Sufjan ha scartato. Carrie & Lowell guarda a quegli stessi fast food e supermarket, a quelle stesse cucine con il barattolo di burro di arachidi abbandonato sul tavolo, a quegli stessi pomeriggi sereni alla partita di baseball, a cui Sufjan aveva provato per anni a dare sostanza metafisica. Carrie & Lowell accarezza quei luoghi finalmente con dolcezza, evocandone i fantasmi che li hanno abitati. Come Mark Kozelek ha fatto con Benji lo scorso anno, il nuovo disco del cherubino racchiude l’America in un pugno di memorie che sta fra lo sguardo triste del cecchino di American Sniper  e i dodici anni del protagonista di Boyhood di Richard Linklater. L’America salvata dal senso di perdita di un ragazzo che non saprà mai urlare il suo dolore al mondo e quindi lo contestualizza. La madre come nuova figura di culto del. rock’n’roll. Sostituita la ribellione che non trova più eserciti di cuori pronti a farsi travolgere, con la carezza dell’unica persona di cui mai si potrà mettere in dubbio l’affetto. Sufjan, l’ex- cherubino, si presenta al pubblico da solo con le sue canzoni sussurrate alla madre, sormontato da una serie di losanghe imponenti, dove verranno via via proiettate le sue immagini d’infanzia e fermo immagine della costa dell’Oregon, dove ha attraversato la sua infanzia. Sembra di stare in una di quelle chiese finto gotico di tante città d’America. Una di quelle in cui un adolescente Sufjan provava a muovere i primi passi fra le note, cantando la sua fede incerta al signore. E’ accompagnato da quattro elementi, e si capisce da subito che il ragazzo, come sempre, è preparato. Lo spettacolo (perché di questo si tratta) viene governato dall’ex-cherubino, fra giochi di luce, fotogrammi di bambini e madri e chiaro scuri acustici ed elettronici. Perché, nonostante la veste intima delle canzoni del disco nuovo, mai Sufjan rinuncerebbe a provare a guardare oltre. Anche maldestramente, come nella resa astrusa di All Of Me Wants All Of You, che regala l’intensità del disco a un vestito sintetico che non sembra andare da nessuna parte. Ma è un attimo. Basta che arrivi 4th Of July ed è come rivedere il ragazzino di Guardians Of The Galaxy che lascia la mano della madre morente all’ospedale, per racchiuderne il ricordo nell’intimità di un’audio cassetta di canzoni anni settanta. Se il mondo è un mostro, il nostro amuleto ci renderà invincibili. C’è chi si fa venire gli occhi lucidi, ma sempre con compostezza. Sufjan intanto armeggia fra banjo, chitarra, piano e ogni tanto passa la mano fra le tubular bells sotto la tastiera. Meno piume e cori che con Illinois, ma comunque la stessa voglia di essere primo della classe. Eppure, saranno i fantasmi di Carrie & Lowell, sarà quella perfetta combinazione di pieni e vuoti, silenzi e sussurri e quell’appena accennata maggior coralitàlive che impreziosisce la nudità del disco ma, pur in modo totalmente non fisco, la partecipazione all’evento è intensa. La conduzione irreprensibile dell’ex-cherubino raggiunge il culmine con Blue Bucket Of Gold in cui il finale strumentale, viene dilatato all’infinito in uno tsunami calmo da undici minuti, che si appoggia su luci bianche che anelano a una divinità sintetica e galleggia su qualcosa di impalpabile fra Brian Eno e gli Spiritualized. Quasi un esercizio di bio – psichedelia nella terra dove la psichedelia è di casa. Sufjan ha fatto bene i compiti. Raggiunto lo scopo, si mette il cappello da baseball, prova a raccontare una storia di liceo e ci spiega come le canzoni tristi siano un esorcismo che porta gioia. Ultima lezione prima di sciogliersi e imbracciare il banjo. Sfilano ancora i Sette Cigni, la sorella e viene spedita una cartolina dall’Illinois. Entra anche qualche ottone, ed è tutto preambolo e attesa per quel “Libro dell’Inquietudine” che è Chicago, qui resa con uno spruzzo di elettronica che avvolge il sussurro di Sufjan, su uno dei massimi momenti della musica Pop degli anni zero. Guardare l’America senza avere l’ansia di parteciparvi. Stare alla finestra per salvarla. Ho fatto un sacco di sbagli, Pessoa avrebbe applaudito, anche lui. Sulla via di casa, sono in auto, con amici che, come da copione, tessono le lodi di quel genietto con il cappello da baseball, il banjo e le losanghe sopra di lui. Mio figlio da casa mi scrive un messaggio sul cellulare. “Ma dove siete che non riesco a dormire, perché sto accanto a mia sorella, che se si spaventa almeno sono qui io. Ma dove siete”. Mio figlio, cuore indomito, con un piede sulla Main Street di Fredericksburg, grande e incognita, pronta a mangiarselo. Come Sufjan, davanti al racconto di un’America infinita che non perdona, aggrappato alla gonna della Madre, con tanta paura di fare errori.

Il Direttore

 

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merchandise

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Effervescenza del Direttore: ecco il suo punto di vista sui Merchandise.

Buona lettura:

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Una Riflessione sulla grande Opera Rock (che non c’e’) – MERCHANDISE

Da qualche tempo è particolarmente calda la discussione su quale sia, e se ancora ci sia, una chiara delimitazione fra mainstream (per dirla con parole semplici “grande rock” da milioni di dischi venduti) e indie rock. Tanti si sono prodotti in analisi approfondite partigiane o meno ma, come spesso capita con un oggetto cosi legato al gusto come la musica popolare, non si arriva mai a una vera e propria conclusione. Non che qui si pretenda di conoscere la risposta a cotanto quesito, ma l’uscita di un disco come After The End dei Merchandise e i giudizi e recensioni conseguenti, rilancia la diatriba. Gruppo di formazione post punk da Tampa, Florida sotto fresco contratto con la 4AD (la 4AD di oggi e non quella filigranata che alcuni ricordano più di un paio di decenni fa), che licenzia una collezione di canzoni che, partendo da radici tipiche dell’Americana (folk, blues e chitarra acustica), ricama ritmi synth e suggestioni anni ’80 di varia origine, per darsi una veste pop di maggior respiro. Sembra una definizione da dizionario e potrebbe essere tutto qui, visto che non si tratta di un’operazione nuova nel suo genere, sennonché per After The End si è arrivati anche a urlare al miracolo e si sono spesi voti ben oltre la media nazionale. La ricetta? Voce profonda che sposa l’eleganza di un Bryan Ferry primo periodo all’eloquio malinconico di un Morrissey che si lecca le ferite, melodie che partono da basi folk e alt country e danzano con intenzioni sintetiche e ritmi secchi figli di certa new wave ed il gioco è fatto. Certo la terna di numeri che vanno dalla leggiadra Enemy, passando per True Monument (che non avrebbe sfigurato in Plans dei Death Cab for Cutie) e arriva a Green Lady è il paradiso di chi vede nell’arte del rimestio di riferimenti, il segreto aureo della sintesi pop ed è pronto a strapparsi le vesti. L’effetto è comunque notevole e non è difficile pensare che chi adori (verbo abusato in questa stagione di superlativi) i National non possa che saltare dalla gioia. Sparati i colpi migliori, il disco procede onestamente in bilico fra mestiere e discreta scrittura pop, per arrivare a momenti come Little Killer e Looking Glass Waltz, dove testi e melodia non fanno neanche mistero di ambire agli Smiths, senza troppo pensarci su. Insomma, tutta la formazione titolare dei riferimenti essenziali dell’Angst 2.0, Smiths in testa, ma anche Cure, NewOrder e R.E.M.. Una bella adolescenza passata nel giardino di casa a strimpellare la chitarra acustica ed il gioco è fatto. “Won’t someone please help me/ I’m too young to feel this old” sintetizzano i Merchandise e per molti questa non è che la conferma che questi hanno capito tutto. Oppure, un pasto perfetto per i detrattori che ci vogliono vedere furbizia, ansia da grande rock e puzza di preconfezionamento. Ma si sa che oggi è facile confondere la didascalia obbligata da piattaforma Social Network, con la “sublime sintesi del pop” che riuscirà finalmente ad abbattere i muri dell’indie rock e mainstream. Il messia che a furia di messaggi haiku, che gettino un ponte fra passato e futuro, metta d’accordo tutti. In attesa di battere il record di like su Facebook, i Merchandise, con la loro pur pregevole scrittura pop, sono gli ultimi a esserci finiti in mezzo. Un disco come il loro (e fra l’altro la voce del cantante curiosamente ricorda quella di Steven Lindsey dei dimenticati Big Dish, gruppo scozzese con ansie mainstream – ancora – fine anni ottanta) solo un paio di decenni fa, sarebbe stato archiviato come una buona, onorevole opera prima. Oggi, lo stesso disco provoca dibattiti e invita a gridare al miracolo, forse perché di miracolo c’è una voglia compulsiva. Purtroppo non saranno i Merchandise a darcelo, perché non basta avere tutti i riferimenti al posto e al momento giusto per confezionare il capolavoro. Nell’immaginario della musica popolare l’album indimenticabile nasce laddove c’è del rischio, qualcosa può o va storto e i significati crescono dopo ogni ascolto spontanei, senza che il pasto sia stato preparato necessariamente a tavolino. Insomma,  After The End non è #1 Record dei Big Star, e non credo neanche ambisca a esserlo. L’importante, che vincano mainstream o indie rock, è ridare la giusta misura alle cose. Ci avete veramente preso tutto. Lasciateci almeno sperare di poterci ancora sorprendere, senza ricoprirci a forza di superlativi.

 

 

 

 


Caro Moz, ti scrivo

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Nel giorno in cui Morrissey suona a Milano e a me tocca stare da solo in negozio dopo aver dato la mia benedizione Moz et Orbi a un gruppo di eroi locali partiti alla volta dei suoi gorgheggi, pubblichiamo l’ennesimo e valoroso contributo de Il Direttore (che non sono io, mi tocca dire una volta di più, non per prenderne le distanze, ma perché i meriti vadano alle firme giuste).

Stasera Moz farà Asleep e magari io avrò finito da poco di rispondere a uno che mi chiede se abbiamo dei bootleg dei Dream Theater.

Crudele è la vita.

Nel frattempo, la parola a Il Direttore:

Lettera a Mr. Malcontent – Una (non) recensione di World Peace Is None Of Your Business

Caro Moz, buffo apostrofarti in chiave epistolare. Una forma di comunicazione sempre da te apprezzata e coltivata, sia con i tuoi idoli sia (soprattutto) con i tuoi bersagli prediletti. Oramai ogni tua iniziativa o uscita pubblica è congedata da recensori e stampa come oggetto da cronaca scandalistica. Ulcere, raffreddori, canzoni e concerti (per lo più annullati, ultimamente). Tutti nello stesso tritacarne mediatico. La M di Morrissey in rigido ordine alfabetico fra Linsdey Lohan e Britney Spears. Certo, tu non hai fatto molto per evitare di diventare una fotografia da rotocalco. Sembra quasi che ti diverta a trasformare il tuo romanzo d’appendice in una storia a puntate buona per il Sun e le letture da salone di bellezza. Quasi che tu sia convinto che basti la tua diversa appartenenza letteraria, la tua peculiare attenzione per le figure metaforiche, per offrirti al Dio Gossip, sapendo di poterne uscire elegantemente quando vuoi. Credimi caro Moz, il mondo ha dimenticato da qualche tempo il significato della preservazione dell’Eroe. E’ sempre più difficile marcare le distanze, e quando ti offri al bagno sociale, ne diventi immediatamente parte. D’altro canto tu hai sempre diviso, e lo sai. Chi ti avrebbe regalato il diario segreto e avvolto in un Union Jack fradicia di lacrime, all’ombra monumentale della Battersea Power Station. Chi invece ti ha sempre dismesso come un re monco, uno che aveva bisogno comunque sempre di qualcuno che traducesse in musica le proprie invettive e poesie. Le cime tempestose di Stephen Street, la carezza glam di Mick Ronson (Dio lo abbia sempre in gloria) e poi la gang fedele di Whyte e Boorer, prima che finissi di litigare pure col primo. Sempre sulla graticola, dove credo che alla fine ti piaccia un po’ piazzarti, nonostante tu abbia sempre dichiarato il tuo aristocratico disinteresse per le cose del mondo. Alla fine, che si parli bene o male, l’importante è che se ne parli. Eppure il Salford Lads Club, a Manchester è diventata una bella attrazione per gli amanti 2.0 del vintage vittoriano e Johnny, quell’ingenuo indifeso Johnny che a te piace sempre immaginare, fa dischi a suo nome e canta le canzoni degli Smiths per suo conto. Tu oramai guardi con affetto i tuo accorati fan chicanos e guidi la decapottabile sulla Highway 1. La madre patria e i Teddy Boys sono un ricordo lontano. Hai giocato a freccette a sufficienza con i bersagli di Mike Joyce e il giudice Weeks nella tua autobiografia e, nonostante l’insistenza sugli argomenti sia una delle tue manie predilette, converrai con me che sia plausibile che il mondo sfili via tranquillo senza curarsi troppo delle tue inquietudini di mezza età. Ma veniamo al tuo nuovo disco. Tu ti senti un (non troppo) giovane Werther continuamente alle prese con gli stessi dolori, ma chi ti accusa di essere piuttosto una cicala in andropausa avrà di che divertirsi, fra proclami contro la guerra, sermoni sui mali dell’umanità e crociate contro divoratori di carne rossa e affini. Il mondo salvato da parole necessarie, sempre che si sia un mondo la fuori a volersi far salvare. La tavola è ben apparecchiata per armare i detrattori. Eppure, caro Moz, ti confesso che questo capitolo del tuo diario mi lascia ben sperare, dopo il passo falso di Years Of Refusal, primo disco veramente inutile della tua carriera. Passo oltre la tua solita cura per la forma, dalla copertina fino alla scelta dei caratteri dei titoli stampati. Tutta materia da feticisti del dettaglio, quali tu stesso negli anni ci hai educato ad essere, consci che sia inutile cercare condivisione su certi temi complessi come l’importanza della forma, nei pochi caratteri di un cinguettio, in quest’epoca di didascalie obbligate. Probabilmente, anche tu dovresti fartene una ragione. In realtà, qui sono i tuoi azzardi a conquistarmi e incuriosirmi. Dall’Hollywood Drama, con tanto di uccellini e archi malinconici di I’m Not a Man, pronta per prosceni da Vaudeville alle chitarre flamenche che fanno tanto nobiltà di Kiss Me Alot, scioglilingua elegante, fra “sentimiento que se baila” e confidenzialità barocca. E c’è pure spazio per alcuni degli inediti mai cosi a fuoco, per chi si vuole spingere fino all’edizione estesa dell’album. Salford è proprio lontana e ora che la tua amata Inghilterra è oramai diventata un numero alla fine di un bilancio finanziario trimestrale, poco importa. C’è un nuovo mondo che ti attende, libero da vincoli di appartenenza. E allora, caro Moz, se posso, ti consiglio di darti senza remore. Laddove Hollywood ti pavimenta un lungo dorato viale del tramonto, getta le tue braccia e dimentica Parigi e Coronation Street. Se sei la rockstar vivente più famosa del mondo è ora di dimostrarlo, facendo orecchie da mercante a chi dubita o vive di poster sul letto della cameretta. Più Elvis e meno Wilde, più Las Vegas e meno Mercury Prize, se posso azzardare. Prendi al volo quel tram chiamato desiderio e rimetti le armi che tieni affilate, per provare a combattere quella modernità che tanto t’ignora comunque. Conquistali con la tua verve, che il tuo vocalizzo malinconico rivaleggi con Barbra Streisand piuttosto che con Damon Albarn o Jarvis Cocker. Death of A Disco Dancer e i titoli di coda di una stagione che scorrono sul tuo sillabare con orgoglio Oboe Concerto, come ti avrebbe insegnato Pasolini. Eresia per gli irriducibili del ricordo a tutti i costi, luccichio del tuo nuovo vestito da crooner lunare. Non aver paura della passerella e affrontala con la tua consueta eleganza. Saremo lì ad applaudirti nonostante i “se” e fregandocene dei “ma”. Con deferenza ti saluto e ti auguro di tenerti in Buona Salute e di dare meno retta alle cassandre. Il mondo ha ancora bisogno di Dive che non abbiano paura di esserlo.

 (Il Direttore)

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brezza estiva – tre recensioni de Il Direttore

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Ritornano i consigli di Mauro/Il Direttore

http://www.backdoor.torino.it/?cat=5

 

ecco tre recensioni, tutte per voi.

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HOW TO DRESS WELL – What Is This Heart?

Tom Krell ha sempre amato l’arte del defilarsi. Le sue sinfonie domestiche cosi sfuggenti, accenni R&B di una precarietà crepuscolare, quasi impalpabile. Una voce sicuramente black, ma timida, imbarazzata nel concedersi. Un mondo di fantasmi, celebrati nella saga domestica di Total Loss, dove parenti e amici morti accompagnavano Krell nel suo dolce e malinconico viaggio della memoria. La chiamavano witch house e Krell insieme ad altri colleghi dell’etichetta simbolo Tri Angle e a quell’altro esploratore delle morbidezze della notte che è The Weeknd, ne è da subito stato uno degli alfieri più illuminati. E il suo nuovo lavoro si apre proprio come Total Loss finiva. 2 Years On (Shame Dream). Stessi fantasmi della memoria, uguale nostalgia. Qualcosa però indica una nuova direzione. La voce è più sicura e la linea melodica pennellata da piano e chitarra maggiormente definita. Non è più tempo di nascondersi dentro il bozzolo della bassa fedeltà. Le intenzioni si chiariscono meglio in What You Wanted, dove intarsi di sax aprono a possibilità di lussi AOR.  E’ l’inizio di una pagina nuova, in un crescendo continuo fra velleità mainstream levigate con grazia (Krell sa come arrangiare le sue canzoni) e una voce che oramai non teme più il confronto con i riferimenti del passato. E poi arriva Repeat Pleasure. Una cosa che è figlia dello stessa ricetta segreta che animava la perfetta freschezza di Human Nature cosi come immaginata da Jacko e Quincy Jones. Krell vola alto, ma soprattutto non ha più paura. Words I Don’t Remember incontra corpi bollenti nella notte. Krell si scopre fisico e anima la scena che fu di Hall & Oates. Tastiere profondissime costruiscono stanze dove la voce disegna piaceri rosso fuoco. Toccato l’apice, è tutta una discesa in perfetta scioltezza fra arrangiamenti che guardano ai Blue Nile californianidel terzo disco, accenni etnici e azzardi sinfonici come A Power. Insomma, Krell ha svoltato. Un nuovo grande interprete di soul post moderno è tra noi.

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BEN FROST – Aurora

La terra del fuoco. Ben Frost, australiano d’origine ma oramai adottato dai ghiacci d’Islanda, terminale perfetto della Bedroom Community, ecclettica congrega capace di spaziare dalla musica degli Appalacchi all’elettronica ambientale. Ha plasmato con il fuoco strutture elettroniche altrimenti glaciali, nel suo applaudito By The Throat del 2011, reinterpretato colonne sonore sinfoniche con Solaris e partecipato a dischi appunto monumentali, come The Seer degli Swans e Virgins di Tim Hecker. In sostanza, il perfetto paradigma del compositore elettronico postmoderno. Ambientale e fisico, sinfonico e sintetico, freddo fuori ma bollente dentro. Se By The Throat era, appunto, un peculiare esempio di amalgama fra interferenze elettroniche, magma sintetico e volontà cinematografiche che provava a disegnare un percorso ambient sospeso, Aurora è il suono finale del campo magnetico terrestre che tende a diluirsi più velocemente che nel passato, l’approdo ultimo di Melancholia di Lars Von Trier. Coadiuvato nella sua ricerca di fisicità metallica da due esperti del genere, Thor Harris degli Swans e Greg Fox dei Liturgy, Frost abbandona le chitarre ed espande il campo d’azione dei suoi bleeps disturbati e rotti. Ne nasce un’ipotesi di dance primitiva e scurissima, quasi un sabba vichingo (qualsiasi cosa voglia dire). Più Sandwell District e Container che Basinski. Numeri di danza quasi epilettica, istintiva, tagliati di traverso dai ritmi marziali regalati da Harris e declinati su un intercalare senza sosta di crescendo e di silenzi e su linee melodiche materializzate sottotraccia. Il rave alla fine del mondo di Nolan, una delle cavalcate elettroniche definitive degli ultimi anni, il volo a planare di Secant e l’EDM sfiorata di Venter o No Sorrowing, tutti segni di una materialità grezza ma in realtà plasmata con cura. Venga Il Tuo Regno, come diceva Vollmann nella sua crudissima storia degli albori dell’America. L’elettronica non è stata mai cosi materiale e dolcemente dolorosa.

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THE WAR ON DRUGS – Lost In The Dream

 

I segnali oramai sono chiari. Ariel Pink lo aveva capito. Simon Reynolds già teorizzato in ampie parti del suo saggio Retromania. La spiaggia in bianco e nero ritratta nel video di The Boys Of Summer di Don Henley aveva un dopo. Il Luna Park di the Tunnel Of Love di Springsteen era ancora aperto e le lezioni di volo di Tom Petty imparate a memoria. Gli americani uscirono definitivamente dagli anni settanta saccheggiando le tastiere analogiche del new pop inglese e regalandole a poesie di auto sfreccianti e donne sempre sulla soglia ad aspettare. Fu uno scandalo. Si danzava nel buio per la classifica, con gli occhi di Courtney Cox che guardavano lucidi. Il post punk aveva fallito e come sempre qualcun altro ne aveva capitalizzato le possibilità sintetiche. History Is For The Winners. Tastiere e fiati aerei al servizio di un capitalismo anelante di futuro. Opportunità di arrangiamento abilmente intercettate da The Boss, Dire Straits e Dylan. Per anni chi marca il ’77 con una netta linea bianca additò tutti loro come l’Anticristo. Mai e poi mai. Adam Granduciel sta nella sua stanza buia. Riflette. Ha avuto ovviamente una storia andata tranquillamente a puttane e vorrebbe scriverne. Due dischi alle spalle, in cui ci ha provato, ma non è riuscito a mettere a fuoco. Under The Pressure parte con il finestrino giù e la strada dritta davanti. Qualche anno fa, Jeff Tweedy chiese aiuto con l’alfabeto morse. Yankee Hotel Foxtrot come tentativo estremo di comunicare. Interferenze meta pop in corpo neo folk. Qui Granduciel parte con l’indolenza vocale di Tom Petty e incontra i lussi di sax fine ottanta sulle strade della California. Non è più solo. Gli sputi dell’oceano e il vento in faccia An Ocean In Between The Waves danno la sicurezza per rilanciarsi con un grido e un bell’assolone di chitarra, senza aver più paura di essere presi per dei cari estinti. Il gioco è fatto. I velluti notturni di Suffering e la Pale Shelter al rallentatore di Disappearing dove fa capolino anche un’armonica che avrebbe reso fiero Paddy Mc Aloon. Gomito fuori dal finestrino, sole, terra orizzontale e l’oceano a un lato che scorre. Per arrivare alla confessione finale di In Reverse. Granduciel chiude il cerchio e c’è chi si commuove, mentre altri hanno ancora provato a protestare, citando prima dell’arrivo Young Turks di Rod Stewart. Certo, vero, ma i ricordi non hanno regia, arrivano come un’onda. Il piano di The Way It Is di Bruce Hornsby e il sipario cala sui due amanti a piedi nudi di Don Henley. Si rincorrono ancora sulla spiaggia e noi non possiamo fare a meno di sperare non smettano mai.  Some Things Will Never Change.

 

 

 

 


Il Direttore: recensioni aprile 2014

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Tornano i consigli sotto formato recensione del Direttore (che, viste alcune richieste di chiarimento, non sono io, ma l’elegante gentiluomo che potete apprezzare anche visivamente nella rubrica I Castori).

Benemerito, mentre è alla ricerca dell’Arca Perduta (la collezione completa della Flying Nun), ha trovato il tempo per queste preziose righe.

Ringraziandolo, buona lettura (Maurizio)

Recensioni Aprile 2014

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Stephen Malkmus & The Jicks – Wig Out At Jagbags

Zio Steve qui è di casa. La sua aristocratica indolenza è un segno distintivo, un amuleto per rispondere alle bruttezze del mondo con un bel “chissenefrega”. Molti di noi vorrebbero essere semplicemente come lui e avere la sua stessa capacità di scartare, di poter tracciare linee oblique e quindi mettersi a lato per non farsi travolgere dalle continue folate della realtà balorda. E qui Zio Steve ci riesce alla grande, in uno dei suoi dischi più a fuoco da quando sancì la fine di quel miracolo indie pop che furono i Pavement. Lariat, il singolo, aveva già fatto ben sperare, con quella melodia quasi cubista che non avrebbe sfigurato per niente in un disco del quintetto di Stockton. I numeri in cui Stephen si prendono beatamente gioco della vita con gusto e stile qui non manca. Come in Houston Hades, dove è l’universo un po’univoco “tette, dollari e macchinoni” dei redneck texani ad essere preso magistralmente di mira. Assoli di chitarra che flirtano con gli anni ’70, ma ripiegano prima di rischiare di diventare veramente prog e un maneggio della melodia di sbieco per cui qualcuno dovrebbe dargli un bacio in fronte. (Still) alive and kicking.

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Neneh Cherry – Blank Project

Il ritorno della regina. The Cherry Thing, collezione di preziose cover oblique, in compagnia del meta – jazzista Mats Gustafsson, era già stato un indizio concreto del fatto che i tempi erano maturi. E a diciotto anni da Man, ultimo segnale pubblico di Neneh,  The Blank Project è un nuovo foglio bianco su cui la regina immagina le sue pulsioni, con quella visione a 360 gradi che ne ha alimentata l’intera carriera. Un’ansia onnivora svezzata fra le fila del post punk britannico più curioso e terzomondista, alla corte di Rip Rig & Panic e Slits, Neneh mostrò poi di sapersi districare al meglio fra i velluti costosi del pop degli anni Ottanta e Novanta, lasciando al mondo due tracce essenziali come Buffalo Stance e Seven Seconds. Kieran Hebden, in arte Four Tet, produce o meglio disegna un paesaggio dove  l’elettronica si muove discreta dietro le quinte, lasciando che la voce di Neneh sfili fra i ritmi. Un suono volutamente scarno e profondo, perché non è più il tempo di velluti o di arrangiamenti luccicanti. E la regina svela tutti i suoi gioielli, con mestiere e classe. L’appello dell’esplicita Naked, con quello sguardo world così figlio dei primi anni ottanta. Gli echi di narcolessia trip hop di Spit Three Times, passeggiata fra i fantasmi di una Bristol ancora oggi indispensabile. Per finire con quel dub step Soul che è Everything, una vera e propria ipotesi di Neneh 2.0. Passato e futuro. Riappropriarsi delle radici per ripartire nuovi. Quanto verrebbe voglia di ascoltare la voce di Neneh in un pezzo scritto da Burial; cosa sarebbe saperla chiusa nel buio di uno studio alle prese con le trame oscure dei Raime. Per ora basti sapere che la Regina è tornata e non ha nessuna intenzione di abdicare.

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Real Estate – Atlas

Matthew Mondanile ha un nome buono per una quarta generazione d’italiani trapiantati nel New Jersey. Spaghetti Alfredo e orgoglio nazionale per un Paese ricordato in cartolina. In realtà quando si mette a scrivere canzoni, Mondanile preferisce sfogliare la sua collezione di 45 giri della Sarah Records, piuttosto che rivolgersi a Cutugno e Pavarotti. Il suo terzo disco a nome Real Estate (il nostro è anche chi si cela dietro la sigla Ducktails) prosegue la ricetta dei due predecessori. L’indie pop che trova il senso nei dolci accordi di chitarra piovosi, imparati a memoria sillabando C86. La morbidezza dei passaggi chitarristici che  si sposa con l’indolenza tipica degli slacker americani che se ne stanno sul bagnasciuga, ben al riparo da qualsiasi eccesso di ribalta. Canzoni pigre e morbide, come quando arriva il primo polline di primavera e ci si sente fortunatamente deboli e svogliati. Solo una gran voglia di gettarsi su un prato e puntare lo sguardo alle nuvole. Mondanile ricama accordi e rintraccia melodie lievi proprio per tutti quelli che credono che il jangle pop possa ancora salvare il mondo. Nulla di nuovo sotto il sole, nessuna pretesa di conquistare eserciti di fan dalle anime fiammeggianti, ma solo la capacità di lasciarci un manipolo di canzoni gentili, per salvarci la giornata. Non finiremo mai di ringraziare chi fa ancora dischi così.

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Riccardo Sinigallia – Per Tutti

Certo, menzionare SanRemo al Backdoor è un azzardo, un gesto conscio del rischio di non essere la tazza di tè per tutti. Riccardo Sinigallia non è un fresco prodotto del Festival Dei Fiori, surrogato di qualche talent show plastico. Anche suo malgrado, con i Tiromancino prima e in solitaria poi, ha dato prima vita e poi alimentato la scuola del Pop romano di questi ultimi quindici anni, senza mai essersi preso pieno merito per questo. In un Festival che è stato dominato dal racconto di quel percorso storico che parte da De Andrè e arriva al premio Tenco, Riccardo ha rappresentato quell’Italia del Pop adulto e poco allineato che si abbevera alla fonte inesauribile di Lucio Battisti e non teme i rischi di aprirsi all’assorbimento di stili e influenze straniere. Un percorso parallelo, che non avendo cercato un terreno politico su cui definirsi, ha seguito cammini meno raccontati. L’elettronica che ha assorbito la sensibilità di Canterbury fra i banchi di scuola e sdoganata dai Radiohead di Kid A, il tropicalismo dandy di Marcos Valle e il synth pop come eco lontano di quegli anni Ottanta comunque inevitabili. E poi quel segreto aereo imparato dal Divo Lucio, dove la grana ruvida della voce si posa su cadenze morbide e rotonde, in una parola dolcemente malinconiche. Un approccio Pop che non vive di dignità alte, terreno consono al cantautorato ortodosso peninsulare. Una forma canzone che rischia sul piano dell’equilibrio tra fruibilità e ricerca, ma che nelle mani di artisti sensibili come Riccardo, può diventare preziosa. Per Tutti è il suo terzo disco solista, dove Riccardo si prende rivincite, sussurrando anni di rinunce e mettendo più a fuoco testi che dipingono l’Italia di questi anni da un punto di vista crepuscolare, dove l’osservare defilati diventa più efficace dell’urlare. Forse non per tutti, non ora, immersi in un paese troppo cinico che spesso frettolosamente confonde la cialtroneria con l’eroismo. Per chi è curioso, Prima Di Andare Via, se avete un attimo, passate di qui.


Sun Kil Moon Saga

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Ecco il primo di una serie di preziosi contributi del nostro “Proust delle praterie”.

Il Direttore ci regala (recensione prima, racconto a cuore aperto dopo) un flusso di considerazioni sul recente capolavoro di Mark Kozelek/Sun Kil Moon: Benji.

A voi le parole del nostro Uomo perso tra il nulla del Midwest e l’agio assoluto dei jet privati. (m)

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Sun Kil Moon – Benji

Mark Kozelek è stato un compagno di viaggio fedele e malinconico. Dall’inizio degli anni novanta in poi e sempre stato necessario tornare ad immergersi nelle sue canzoni e a farci guidare da quella voce, senza preoccuparci troppo di voler vedere la luce in fondo al tunnel. Dopo un mare di musica, Kozelek arriva finalmente alla sua prova più importante, quella cui giustamente la critica tutta guarderà come sua opera definitiva. Il cantautore dell’Ohio trapiantato nella baia di San Francisco cambia prospettiva. Niente più cavalcate chitarristiche che si perdono nell’infinito. Qui sono le storie raccontate da una voce mai cosi spezzata dall’esperienza e dalla malinconia, a farla da padrone. Storie di fantasmi, di memorie lungo le strade Blu di un’America senza Gloria. Storie piene di morti o di presagi di morte. Amici, parenti e persino vittime di sparatorie a scuola. E’ l’America profonda, quella messa in scena da Kozelek. Quella che non si specchia nel successo o nella ricchezza, ma si nutre di sconfitta e disperazione, spesso vuote. E Mark quest’America profonda la racconta con un cuore che non è mai stato cosi nero, quasi rivolgendosi necessariamente alla trilogia del dolore di Neil Young. Ne viene fuori un viaggio lungo l’America, dalle sponde dell’Ohio natio fino al New Mexico e ancora più a Ovest, scandito da un flusso di coscienza personale e accompagnata da un suono mai cosi nudi. Quasi doloroso. Un disco necessario, come lo sarebbe stato un libro di racconti di DJ Pancake o di Carver. Canzoni che segneranno il 2014, comunque vada.

On the Road with Mark

New Mexico Highway (land)

 

 

Il cielo promette tempesta. Come sempre, è lì oltre il mio finestrino che minaccia di mangiarsi la terra piatta sotto di sè. Amarillo e la striscia di terra ingenerosa del Dust Bowl sono oramai dietro di me. Di fronte, le montagne del New Mexico mi osservano minacciose. Intorno, un deserto non ancora scenografico a sufficienza da potersi dire veramente West, ma non per questo meno impressionante. Guido, ma la velocità di crociera rimane un’ipotesi e le informazioni del navigatore, una messinscena. Troppa strada dritta di fronte a me, che si perde nell’orizzonte senza trovare ostacoli che ne intercettino il suo inesorabile procedere, che ritornino un senso di movimento, di punto d’arrivo che mi sollevino dal senso di vuoto. Mani sul volante, Big Sky che avvolge tutto e il sole ancora indeciso se tornare a dormire anche stanotte e intanto disegna ombre e luci sulla terra nuda. Solitamente è in questi momenti che Mark Kozelek imbraccia la chitarra e canta. Le sue canzoni sono mari acustici dove si perde il senso del tempo che scorre, proprio come il motore della mia auto si arrende all’evidenza di un movimento che perde significato di fronte a tanto spazio. Solitamente, quando attraverso l’America, la mia idea di America, Mark Kozelek è con me. L’America, sì, l’America. Sentieri selvaggi non ancora setacciati dall’uomo. Sparuti inquilini provano ad addomesticarne lo spazio, declinando teorie di edifici finti e plastici, supermercati e catene di ristorazione sempre, ineluttabilmente uguali a se stessi. Insegne luminose promettono un approdo sicuro ai viaggiatori, per rassicurarli che quel mare di spazio non fa cosi paura. Ma quando si lasciano dietro quei pochi tentativi di maldestra e anonima umanità, è solo una linea retta che rimane a dividere cielo da terra e la mia auto e lì che si illude di macinare miglia. Tutto torna a perdere un possibile codice di sequenza, lo spazio ritorna a invadere le mie certezze e Mark Kozelek, inesorabile, ricomincia. Lui e la sua chitarra mi conoscono da più di vent’anni, quando si presentò come una risposta Americana ai dolori della New Wave inglese, o cosi ci fecero credere. Lui e i suoi Red House Painters da una parte e Mark Eitzel e gli American Music Club dall’altra. Dischi filigranati e virati seppia e malinconia torbida accompagnarono la generazione X di Douglas Coupland fuori dagli anni Novanta e raccontarono la caduta degli eroi post adolescenti “meno di zero” di Brett Easton Ellis. Narrarono notti senza luna di storie andate al diavolo e fegati alla ricerca di una precaria via d’uscita. Andai a cercare il significato del suo dolce dolore a Grace Cathedral Park, a San Francisco, dal titolo alla prima canzone del disco dell’Ottovolante. Semplicemente uno dei miei amuleti imprescindibili, quando si mette male. Conservo ancora una fotografia di quel posto, rigorosamente in bianco e nero. Un bambino e una bambina dondolano su un’altalena. La chiesa si staglia dietro di loro come un fantasma.  E poi ho navigato con lui lungo il fiume Ohio, ultima frontiera prima della frontiera vera e propria. Acque scure torturate e avvelenate dall’umanità industriale, ma dense di ricordi. Carry Me Ohio è una di quelle canzoni che vorresti non finisse mai, da navigare insieme a lui per sempre, perso lungo la corrente della memoria. Un avvoltoio mi guarda dal bordo della strada curioso e vigile, mentre punto il muso dell’auto verso Santa Fe. Mark, ancora una volta, canta e suona la mia idea di America che attraverso come uno spettatore bambino, pronto a sorprendersi ancora di non avere bisogno di altro se non di tuffarsi nello spazio orizzontale. Mark Kozelek ha recentemente pubblicato il suo disco definitivo. Benji. Un disco dove i fantasmi della sua America prendono il sopravvento, le canzoni diventano pagine di un romanzo di Cormac McCarthy e Mark finalmente si riconcilia con i grandi padri della musica Americana, Neil Young in testa. Doveva arrivare necessariamente qui. Ed io con lui. Dalle sponde ingenerose del fiume Ohio fino al New Mexico, in compagnia di parenti morti, ricordi d’infanzia, amici per la pelle, la madre sempre troppo lontana. Un’America che non cerca neanche più Gloria perché’ non l’ha mai meritata, che si declina lungo Strade Blu dimenticate dal traffico della vita. In I Watched The Film The Songs Remain The Same, una vera e propria carambola di pensieri che trova unica pietra di paragone possibile nel fiume di coscienza di Astral Weeks di Van Morrison, Mark dichiara che probabilmente la malinconia lo accompagnerà fino alla tomba. Dichiarazione di resa, comprensibile e doverosa. Si è sacrificato per me e per altri come me, lungo tutti questi anni di solitudine, di esistenza al margine di una qualsiasi ipotesi di felicità, per esserci quando ne avremmo avuto ancora bisogno. Perché, comunque, alla fine, la strada dritta si staglia di nuovo di fronte a noi, il cielo ricomincia ad invadere lo spazio ed è di nuovo ora di andare con Mark al fianco e l’America in faccia. E allora, mentre cerco di trovare un significato a queste miglia che m’illudo di percorrere, mentre so in cuor mio che è l’andare più che la destinazione la vera ragione del viaggio, mi chiedo se ci siano altre idee di America. E vi chiedo se abbiate voglia di condividerle. Che ne abbiate respirata l’aria durante un viaggio o attraverso immagini sognate dalla vostra cameretta salgariana, avvolti nella sua Colonna Sonora. Tanto il movimento, come detto, conta poco. Se avete una vostra America dentro, ditemela, senza paura. Con un pensiero corto o lungo che sia, senza timore di rivelarvi troppo. Mi aiuterà a capire di più il senso di questa strada dritta, che non vuole mai avere una fine. Aspetterò fiducioso.


Correndo nella terra di mezzo – Il Direttore risponde (Gennaio 2014)

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Di solito vado a correre davanti a casa. Qui nel mio asettico paradiso terrestre, a Houston, Texas. Un anello da un miglio che circonda il parco con il campo da tennis e da beach volley e lo spazio recintato per i cani, davanti a casa. Tutto ovviamente sempre, inesorabilmente al suo posto, niente cartacce buttate a terra, nessun rumore molesto, la solita quiete artificiale di un paradiso terrestre del Nuovo Mondo. Gli incontri più bizzarri che puoi fare lungo i quattro giri con cui normalmente mi convinco di aver fatto sufficiente esercizio fisico, sono vecchie signore che passeggiano in tuta con la stessa convinta intensità con cui affronterebbero una maratona. Perché per gli americani il jogging, come la cucina macrobiotica, è un’esperienza da affrontare con dedizione sacrale, zero dubbi e un unico chiaro obiettivo in testa. Bruciare calorie e perdere peso, senza chiedersi troppo se il processo per arrivarci debba anche essere un minimo piacevole. Se no, tanto vale fare come una mia vicina che, per compiere i cento metri che dividono la sua villetta dalla cassetta della posta, si mette al volante della sua Mercedes e guida per quei cinque secondi che le servono a coprire l’apparentemente importante distanza. O bruci calorie in modo rigoroso o inizi a lavorare per diventare uno di quei personaggi grassi e incapaci di camminare che popolavano il cartone animato Wall E. Io più prosaicamente corro, sbuffo e sudo. E ascolto musica. Di tutto. Ho provato 45:33, il pezzo di LCD Soundsystem commissionato dalla Nike proprio per il jogging, accorgendomi che già avvicinarsi al quarantesimo minuto non era poi così ovvio. Ho provato con la techno, da Terrence Dixon alla Basic Channel, illudendomi che i bpm potessero dettare il ritmo della mia corsa. Ho deviato su Rashad Becker o Carlos Giffoni quando mi rendevo conto che le anse dolci del pop finivano solo per impigrirmi e lasciarmi il latte alle ginocchia. Qualche giorno fa ho messo in cuffia Extended Plays dei Cheathas, collezione di numeri di shoegaze melodico che si abbevera alla sacra fonte degli indipendenti anni ’90 americani, passato praticamente inosservato nelle classifiche di fine anno 2013. Ascoltando i Cheatahs in cuffia mentre corro e ansimo al buio della sera, mi é venuta, forse favorita anche dall’iperventilazione, un’improvvisa illuminazione. Questa é musica che fa proprio dell’essere nel territorio di mezzo e della sua non definizione, la sua forza. Con la melodia che spinge per prendere il primo piano, rompendo il muro delle chitarre, sulla traiettoria che partiva dagli Husker Du (quelli di Grant Hart) e arrivava a Lemonheads e Dinosaur Jr. Mentre cerco con lo sguardo l’orizzonte, sperando che arrivi prima che il mio fiato si esaurisca, penso che le secche del territorio di mezzo non abbia più voglia di attraversarle nessuno, perché alla fine, nell’epoca dorata del “tutti hanno una voce” si “riesce” solo se si decide di essere perfettamente ben definiti.  A ognuno la sua pillola. Se ti piacciono i motherfucker fighi e luccicanti, ti tocca Kanye West, se preferisci il sofisti-pop veleggia verso Beyoncè o Justin Timberlake. E tutti gli epigoni cercano di infilarsi in fretta e furia un vestito che imiti pedissequamente gli originali. Mentre i ribelli preferiscono rimanere fuori dal giro, dichiarandolo con suoni rubati all’agricoltura (scorregge, sifule o rumori vari) e dichiarazioni trionfali sul proprio sperimentalismo e non allineamento. Nessuno più sta scientemente in mezzo, nella terra dove si rischia l’indifferenza perche quello che fai non é pret-a-porter inscatolabile con una definizione veloce. E infatti quando ascoltiamo un disco come quello di HisClancyness ci sentiamo sollevati. Nell’era del consumo drogato di novità, bisogna sempre inventare per forza qualcosa o creare una nuova scena con cui creare spirito di identificazione. Tutto subito, senza la pazienza di far lievitare il senso delle canzoni, la costruzione dell’immaginario. Il terreno della non definizione non lo attraversa più nessuno e infatti post noise, emo chitarrosa e affini non interessano praticamente più. Bisogna tornare a imparare a perdere senza per questo esserne fieri, mi sussurro da solo mentre evito un cane e il suo padrone e provo a riconcentrarmi sull’ultimo ritornello che spunta dal mare delle chitarre dei Cheatahs. Ascolto con immenso piacere quel rumore melodico che i Cheatahs rimettono in scena con la coscienza di chi sa che non ha più nulla da perdere. Mentre sono all’ultima curva, e mi chiedo se essere semplicemente giovani, carini, disoccupati o Belli in Rosa fosse solo alla fine l’anticamera di una mezza età anonima e auto compiaciuta, senza letteratura, senza infamia ma soprattutto senza Gloria. Corro e sbuffo, sapendo che rimarrò senza risposta. Hanno cambiato le regole per rientrare nel Breakfast Club e probabilmente non ho ricevuto il memo. D’ora in poi, mi dedicherò allegramente al Cardiocombo, vero annientatore di calorie, perso in un mare di adrenalinici adoratori del work out, tutti superlativa convinzione e tute coloratissime. Ke$ha e i suoi umidi strilli adolescenti bombarderanno il mio cervello a tutto volume e un futuro scintillante sarà lì ad aspettarmi oltre il mio sudore tecnologico.

 (Il Direttore/Gennaio 2014)