Lo so, questo è il privè (molto privè, quasi pubblicità piena) di aprile, ma siamo a fine maggio.
Però la scusa è che, come già anticipato, oggi esce ufficialmente nelle migliori librerie all over the world il mio nuovo libro, MyTunes per Baldini & Castoldi.
Quindi, come si suol dire, sono stato incasinato.
Ma questo nuovo tomo (464 pagine!) “frutto della vita (molta autobiografia espansa) e dell’amore (drammatico, terminale per dischi e canzoni) di quest’uomo (io)” è finalmente disponibile.
Potete farmi figo e chiederlo alla vostra libreria di fiducia o farmi pavone e ordinarlo direttamente qui. Con dedica assicurata.
Il libro costa 16 euro
aggiungete 2 euro per spedizione ordinaria non tracciata
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se pagate paypal, sorry, ma bisogna aggiungere 1 euro in più alle tariffe.
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Ma per premiarvi in anticipo e darvi un’idea del libro, ecco un inedito, classica outtake succosa rimasta fuori (lo ammetto, me l’ero scordata e una notte mi sono svegliato improvvisamente – merda, mi sono dimenticato i Killing Joke…).
Buon divertimento.
Maurizio
Requiem
Killing Joke
(Killing Joke, 1980)
“Essere artista ha sempre significato possedere ragione e sogni”
(Thomas Mann)
Maestro Tirelli tu possa bruciare nell’inferno del Rondò Veneziano. Rosolare sulla brace, oltraggiato da spruzzi di accendifuoco Diavolina e abbrustolito a fianco delle damine che suonano il violoncello. Lì devi stare, maledetto pavone gonfiato imballato in giacche di pelo maron e cravattini sabaudi. Quello dovrebbe essere il tuo posto, vigliacco di un baffino canavesano che mi hai impedito di entrare in un gruppo punk e roteare la chitarra come un Pete Townshend in libera uscita. Rondò alla turca, ma quella del cesso, dovrebbe essere la tua dannata dimora. Un vecchio adagio dice che chi non riesce a diventare un buon musicista in genere fa il critico musicale. Bè allora io dovrei essere il capo dei recensori. Ho provato diverse volte a imparare a suonare la chitarra. La più seria, nel 1980. Avevo quattordici anni e andavo a lezioni dalla Scimmia, arpeggiatore di quartiere così battezzato per il volto dai tratti vagamente scimpanzeschi. La Scimmia adorava i Chicago e viveva dall’altra parte del corso, un inferno di lamiere e smog, dove abitavo io. Attraversavo e mi insegnava gli accordi. Portava una riga in mezzo ai capelli degna di un sipario del Teatro della Fenice e vestiva come Tex. Dopo tre lezioni io sapevo già fare Dedicato della Bertè, e mi parve un risultato straordinario. Ero ebbro dei miei progressi, tutto funzionava. Mio padre però ebbe una soffiata da un collega. “Il maestro Tirelli, violino all’Orchestra del più importante Teatro della città, viene addirittura a domicilio. È bravissimo. Bravissimo che non hai idea”. Fui costretto ad abbandonare la Scimmia. Ci separammo per sempre sulle note di If You Leave Me Now, ovviamente dei Chicago. Tornai a casa con il cuore a pezzi e il falsetto di Uh uh uh uh no baby please don’t go nelle orecchie. Quadretto vagamente omosex, ma comunque straziante. Il maestro Tirelli si presentò senza esitazioni una settimana dopo, direttamente in camera mia, vestito esattamente come Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, ma con l’aggravante di olezzare come una mandria di pecore assassinate e lasciate macerare nell’aglio. Lo odiai all’istante. Indossava dei mocassini credo cuciti direttamente da Geppetto e con questi batteva costantemente il tempo sulle mie piastrelle. In alternativa, faceva schioccare le dita. Aveva un libro sottobraccio, dalla copertina arancione, che si chiamava Pequenos Exercicios Melodicos. Capii subito che ci sarebbero stati dei guai. Passavamo interi pomeriggi, seduti sul copriletto patchwork fatto a maglia da mia nonna Caterina, a solfeggiare con le dita. Ogni volta che sbagliavo, mi tirava una stecca sulle falangi. Era come se vivessimo nel 1850, ero certo che la sera lui telefonasse a Urbano Rattazzi o andasse a farsi un hamburger con Pietro De Rossi Di Santarosa. Mi agitava e io indispettivo lui. La cosa che meno tollerava era la mia incapacità di dominare il plettro. Presi a farlo cadere volontariamente dentro la cassa della chitarra. La scuoteva come Paul Simonon sulla copertina di London Calling e urlava inviperito “Non è possibile, in tanti anni, mai vista una cosa simile. Santa polenta, mai”. Potevo relazionarmi serenamente con uno che usava santa polenta come epiteto? Per giunta mi toccava aerare la stanza per ore, anche in pieno inverno. Tirelli se ne andava, ma una traccia di sé rimaneva in ricordo, minando persino l’esistenza di un paio di piantine grasse che avevo ricevuto misteriosamente in regalo per un compleanno. L’eau de Cavour sembrava ammazzare pure loro. Dopo due anni di questo strazio non avevo imparato nulla. Non superai mai l’ostacolo del barrè, le mie stesse dita mi erano nemiche. Lui mi scherzava. “È facilissimo, ma mi guardi per Dio!”, prendeva la chitarra e, mentre camminava in circolo per camera mia eseguendo Segovia alla velocità di Silver Surfer, un giorno intercettò un ritaglio di giornale appiccicato sopra la scrivania. Erano i Killing Joke. “Questi chi sarebbero? Musica moderna? Io apprezzo unicamente il Rondò Veneziano. Adesso prenda quel plettro e vediamo se riesce a combinare qualcosa”. I Killing Joke mettono tutti d’accordo, Tirelli a parte, ovviamente. Punk, metallari, industriali, dj alternativi, new wavers. Lenti e pesanti, con un groove di sottofondo. Immagini del Papa che benedice truppe naziste, Jaz Coleman che canta dipinto in faccia, synth e riff monolitici. Le loro intuizioni sono state la base di molte carriere conclamate (dai Nine Inch Nails ai Korn, passando pure per i Jane’s Addiction), ma nei primi anni ottanta erano ancora un culto sotterraneo. Il loro primo album si apre proprio con Requiem: giro ossessivo di sintetizzatore, riff implacabile di chitarra e bordate di batteria. Post punk marziale, sottilmente deviato. Jaz Coleman canta di bombe che ticchettano, morte, religione e parole che cessano di avere significato. Non mi stupii quando, nel 1982, proprio Coleman se ne andò in Islanda ad attendere l’Apocalisse. Stava arrivando. Davvero? Nel frattempo mi beccai un’influenza belluina. Per giunta mancavano pochi giorni all’interrogazione sul Doctor Faustus di Thomas Mann. Ero drammaticamente indietro nella lettura. Mia madre chiamò Tirelli e gli disse che avrei dovuto saltare la lezione. Finalmente una buona notizia. Non bloccò però la febbre. Requiem mi si piantò in testa. Succede, tu stai male e una canzone ti si ripresenta ossessivamente. Poteva andarmi peggio. Iniziai comunque a delirare, il Diavolo si offriva di comprarmi l’anima in cambio dell’immediata padronanza del barrè. Fui sul punto di accettare. Thomas Mann si mischiava al giro della chitarra di Geordie Walker. Mi convinsi che l’Apocalisse stava davvero arrivando e per giunta io la stavo aspettando in pigiama. Il paracetamolo mi tolse dall’imbarazzo. Guarii, presi un onesto 7 sul Doctor Faustus e, in un momento d’ispirazione, composi uno strumentale alla chitarra. Una schifezza do sol sol la sol sol che chiamai, ovviamente, Requiem. Venni a sapere che i Killing Joke tutti stavano rientrando in Inghilterra. Nessun segnale dell’Apocalisse. Meno male. Mi son sempre domandato come si fossero organizzati. Stavano su un balcone a scrutare il mare? Misuravano i venti? Chissà. Comunque decisi di farla finita lo stesso. Affrontai i miei e chiesi di giubilare Tirelli. Non ce la facevo più. Pietosamente, acconsentirono. Liberato da un simile macigno, mi presentai nella palestra del mio liceo, dove alcune band di studenti si sarebbero esibite nel pomeriggio. I nostri favoriti attaccarono per ultimi. New wave totale. Cambiavano nome di continuo. No Real, Ecole Maternelle, forse all’epoca ne avevano addirittura uno diverso. Li adoravamo. In chiusura tentarono una cover dei Killing Joke. Gli riuscì talmente male che non capimmo se fosse Wardance o Requiem. Verso metà il bassista si fermò e disse al microfono “Ci spiace ragazzi, ma non riusciamo a farla”. Uno di fianco a me, appeso al quadro svedese urlò “Fatela lo stesso e vaffanculo a Baglioni”. Gli andai dietro “Sì e vaffanculo a Tirelli e al Rondò Veneziano”. Ci fu un boato di consenso incondizionato e loro riattaccarono, forse, Requiem. Urlavamo tutti. L’apocalisse poteva attendere.
Playlist:
cose che mi sono piaciute:
Dischi:
Donato Epiro Fiume nero (Black Moss)
Tribalismo anni settanta che emerge da un rio amazzonico dove una tribù sanguinaria sacrifica un pellegrino abbandonato ai boa constrictor
(chiaro, no?).
Scuro e ossessivo.
Damon Albarn Everyday Robots (Parlophone)
Una toccante festa alla propria mezz’età
Denovo Kamikaze Bohemien (Viceversa)
L’esordio mai uscito. Diciamocelo, erano dei fenomeni pop.
Cagna Schiumante Cagna Schiumante (Tannen)
Aspro e potente. Libero. E splendido da dire: “Cosa ascolti tu ultimamente?”. “Cagna Schiumante!”.
Mette a posto chiunque
Libri:
Joe R. Lansdale La foresta (Einaudi)
Forse un po’ gratuito per il dosaggio di violenza, ma Lansdale è Lansdale
Simon Goddard Simply Thrilled – The Preposterous Story of Postcard Records (Ebury Press)
L’epopea della Postcard records di Glasgow, i Josef K, gli Orange Juice, santo cielo…
Altro:
La signora borghese (accompagnata da marito e cane dalmata) che al Salone, dopo aver comprato il mio libro, ha scelto in omaggio il 45 “brutto” La novia di Antonio Prieto.
E mi ha confidato “Sa, proprio su questa canzone ebbi un rapporto completo”.
“Ahh”, ho risposto io.
Quindi si è rivolta al marito con misurata nonchalance: “Ricordi anche tu, Aldo?”.
Impassibili, né lui, né il dalmata hanno replicato.