Ritornano i consigli di Mauro/Il Direttore
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ecco tre recensioni, tutte per voi.
HOW TO DRESS WELL – What Is This Heart?
Tom Krell ha sempre amato l’arte del defilarsi. Le sue sinfonie domestiche cosi sfuggenti, accenni R&B di una precarietà crepuscolare, quasi impalpabile. Una voce sicuramente black, ma timida, imbarazzata nel concedersi. Un mondo di fantasmi, celebrati nella saga domestica di Total Loss, dove parenti e amici morti accompagnavano Krell nel suo dolce e malinconico viaggio della memoria. La chiamavano witch house e Krell insieme ad altri colleghi dell’etichetta simbolo Tri Angle e a quell’altro esploratore delle morbidezze della notte che è The Weeknd, ne è da subito stato uno degli alfieri più illuminati. E il suo nuovo lavoro si apre proprio come Total Loss finiva. 2 Years On (Shame Dream). Stessi fantasmi della memoria, uguale nostalgia. Qualcosa però indica una nuova direzione. La voce è più sicura e la linea melodica pennellata da piano e chitarra maggiormente definita. Non è più tempo di nascondersi dentro il bozzolo della bassa fedeltà. Le intenzioni si chiariscono meglio in What You Wanted, dove intarsi di sax aprono a possibilità di lussi AOR. E’ l’inizio di una pagina nuova, in un crescendo continuo fra velleità mainstream levigate con grazia (Krell sa come arrangiare le sue canzoni) e una voce che oramai non teme più il confronto con i riferimenti del passato. E poi arriva Repeat Pleasure. Una cosa che è figlia dello stessa ricetta segreta che animava la perfetta freschezza di Human Nature cosi come immaginata da Jacko e Quincy Jones. Krell vola alto, ma soprattutto non ha più paura. Words I Don’t Remember incontra corpi bollenti nella notte. Krell si scopre fisico e anima la scena che fu di Hall & Oates. Tastiere profondissime costruiscono stanze dove la voce disegna piaceri rosso fuoco. Toccato l’apice, è tutta una discesa in perfetta scioltezza fra arrangiamenti che guardano ai Blue Nile californianidel terzo disco, accenni etnici e azzardi sinfonici come A Power. Insomma, Krell ha svoltato. Un nuovo grande interprete di soul post moderno è tra noi.
BEN FROST – Aurora
La terra del fuoco. Ben Frost, australiano d’origine ma oramai adottato dai ghiacci d’Islanda, terminale perfetto della Bedroom Community, ecclettica congrega capace di spaziare dalla musica degli Appalacchi all’elettronica ambientale. Ha plasmato con il fuoco strutture elettroniche altrimenti glaciali, nel suo applaudito By The Throat del 2011, reinterpretato colonne sonore sinfoniche con Solaris e partecipato a dischi appunto monumentali, come The Seer degli Swans e Virgins di Tim Hecker. In sostanza, il perfetto paradigma del compositore elettronico postmoderno. Ambientale e fisico, sinfonico e sintetico, freddo fuori ma bollente dentro. Se By The Throat era, appunto, un peculiare esempio di amalgama fra interferenze elettroniche, magma sintetico e volontà cinematografiche che provava a disegnare un percorso ambient sospeso, Aurora è il suono finale del campo magnetico terrestre che tende a diluirsi più velocemente che nel passato, l’approdo ultimo di Melancholia di Lars Von Trier. Coadiuvato nella sua ricerca di fisicità metallica da due esperti del genere, Thor Harris degli Swans e Greg Fox dei Liturgy, Frost abbandona le chitarre ed espande il campo d’azione dei suoi bleeps disturbati e rotti. Ne nasce un’ipotesi di dance primitiva e scurissima, quasi un sabba vichingo (qualsiasi cosa voglia dire). Più Sandwell District e Container che Basinski. Numeri di danza quasi epilettica, istintiva, tagliati di traverso dai ritmi marziali regalati da Harris e declinati su un intercalare senza sosta di crescendo e di silenzi e su linee melodiche materializzate sottotraccia. Il rave alla fine del mondo di Nolan, una delle cavalcate elettroniche definitive degli ultimi anni, il volo a planare di Secant e l’EDM sfiorata di Venter o No Sorrowing, tutti segni di una materialità grezza ma in realtà plasmata con cura. Venga Il Tuo Regno, come diceva Vollmann nella sua crudissima storia degli albori dell’America. L’elettronica non è stata mai cosi materiale e dolcemente dolorosa.
THE WAR ON DRUGS – Lost In The Dream
I segnali oramai sono chiari. Ariel Pink lo aveva capito. Simon Reynolds già teorizzato in ampie parti del suo saggio Retromania. La spiaggia in bianco e nero ritratta nel video di The Boys Of Summer di Don Henley aveva un dopo. Il Luna Park di the Tunnel Of Love di Springsteen era ancora aperto e le lezioni di volo di Tom Petty imparate a memoria. Gli americani uscirono definitivamente dagli anni settanta saccheggiando le tastiere analogiche del new pop inglese e regalandole a poesie di auto sfreccianti e donne sempre sulla soglia ad aspettare. Fu uno scandalo. Si danzava nel buio per la classifica, con gli occhi di Courtney Cox che guardavano lucidi. Il post punk aveva fallito e come sempre qualcun altro ne aveva capitalizzato le possibilità sintetiche. History Is For The Winners. Tastiere e fiati aerei al servizio di un capitalismo anelante di futuro. Opportunità di arrangiamento abilmente intercettate da The Boss, Dire Straits e Dylan. Per anni chi marca il ’77 con una netta linea bianca additò tutti loro come l’Anticristo. Mai e poi mai. Adam Granduciel sta nella sua stanza buia. Riflette. Ha avuto ovviamente una storia andata tranquillamente a puttane e vorrebbe scriverne. Due dischi alle spalle, in cui ci ha provato, ma non è riuscito a mettere a fuoco. Under The Pressure parte con il finestrino giù e la strada dritta davanti. Qualche anno fa, Jeff Tweedy chiese aiuto con l’alfabeto morse. Yankee Hotel Foxtrot come tentativo estremo di comunicare. Interferenze meta pop in corpo neo folk. Qui Granduciel parte con l’indolenza vocale di Tom Petty e incontra i lussi di sax fine ottanta sulle strade della California. Non è più solo. Gli sputi dell’oceano e il vento in faccia An Ocean In Between The Waves danno la sicurezza per rilanciarsi con un grido e un bell’assolone di chitarra, senza aver più paura di essere presi per dei cari estinti. Il gioco è fatto. I velluti notturni di Suffering e la Pale Shelter al rallentatore di Disappearing dove fa capolino anche un’armonica che avrebbe reso fiero Paddy Mc Aloon. Gomito fuori dal finestrino, sole, terra orizzontale e l’oceano a un lato che scorre. Per arrivare alla confessione finale di In Reverse. Granduciel chiude il cerchio e c’è chi si commuove, mentre altri hanno ancora provato a protestare, citando prima dell’arrivo Young Turks di Rod Stewart. Certo, vero, ma i ricordi non hanno regia, arrivano come un’onda. Il piano di The Way It Is di Bruce Hornsby e il sipario cala sui due amanti a piedi nudi di Don Henley. Si rincorrono ancora sulla spiaggia e noi non possiamo fare a meno di sperare non smettano mai. Some Things Will Never Change.