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Effervescenza del Direttore: ecco il suo punto di vista sui Merchandise.

Buona lettura:

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Una Riflessione sulla grande Opera Rock (che non c’e’) – MERCHANDISE

Da qualche tempo è particolarmente calda la discussione su quale sia, e se ancora ci sia, una chiara delimitazione fra mainstream (per dirla con parole semplici “grande rock” da milioni di dischi venduti) e indie rock. Tanti si sono prodotti in analisi approfondite partigiane o meno ma, come spesso capita con un oggetto cosi legato al gusto come la musica popolare, non si arriva mai a una vera e propria conclusione. Non che qui si pretenda di conoscere la risposta a cotanto quesito, ma l’uscita di un disco come After The End dei Merchandise e i giudizi e recensioni conseguenti, rilancia la diatriba. Gruppo di formazione post punk da Tampa, Florida sotto fresco contratto con la 4AD (la 4AD di oggi e non quella filigranata che alcuni ricordano più di un paio di decenni fa), che licenzia una collezione di canzoni che, partendo da radici tipiche dell’Americana (folk, blues e chitarra acustica), ricama ritmi synth e suggestioni anni ’80 di varia origine, per darsi una veste pop di maggior respiro. Sembra una definizione da dizionario e potrebbe essere tutto qui, visto che non si tratta di un’operazione nuova nel suo genere, sennonché per After The End si è arrivati anche a urlare al miracolo e si sono spesi voti ben oltre la media nazionale. La ricetta? Voce profonda che sposa l’eleganza di un Bryan Ferry primo periodo all’eloquio malinconico di un Morrissey che si lecca le ferite, melodie che partono da basi folk e alt country e danzano con intenzioni sintetiche e ritmi secchi figli di certa new wave ed il gioco è fatto. Certo la terna di numeri che vanno dalla leggiadra Enemy, passando per True Monument (che non avrebbe sfigurato in Plans dei Death Cab for Cutie) e arriva a Green Lady è il paradiso di chi vede nell’arte del rimestio di riferimenti, il segreto aureo della sintesi pop ed è pronto a strapparsi le vesti. L’effetto è comunque notevole e non è difficile pensare che chi adori (verbo abusato in questa stagione di superlativi) i National non possa che saltare dalla gioia. Sparati i colpi migliori, il disco procede onestamente in bilico fra mestiere e discreta scrittura pop, per arrivare a momenti come Little Killer e Looking Glass Waltz, dove testi e melodia non fanno neanche mistero di ambire agli Smiths, senza troppo pensarci su. Insomma, tutta la formazione titolare dei riferimenti essenziali dell’Angst 2.0, Smiths in testa, ma anche Cure, NewOrder e R.E.M.. Una bella adolescenza passata nel giardino di casa a strimpellare la chitarra acustica ed il gioco è fatto. “Won’t someone please help me/ I’m too young to feel this old” sintetizzano i Merchandise e per molti questa non è che la conferma che questi hanno capito tutto. Oppure, un pasto perfetto per i detrattori che ci vogliono vedere furbizia, ansia da grande rock e puzza di preconfezionamento. Ma si sa che oggi è facile confondere la didascalia obbligata da piattaforma Social Network, con la “sublime sintesi del pop” che riuscirà finalmente ad abbattere i muri dell’indie rock e mainstream. Il messia che a furia di messaggi haiku, che gettino un ponte fra passato e futuro, metta d’accordo tutti. In attesa di battere il record di like su Facebook, i Merchandise, con la loro pur pregevole scrittura pop, sono gli ultimi a esserci finiti in mezzo. Un disco come il loro (e fra l’altro la voce del cantante curiosamente ricorda quella di Steven Lindsey dei dimenticati Big Dish, gruppo scozzese con ansie mainstream – ancora – fine anni ottanta) solo un paio di decenni fa, sarebbe stato archiviato come una buona, onorevole opera prima. Oggi, lo stesso disco provoca dibattiti e invita a gridare al miracolo, forse perché di miracolo c’è una voglia compulsiva. Purtroppo non saranno i Merchandise a darcelo, perché non basta avere tutti i riferimenti al posto e al momento giusto per confezionare il capolavoro. Nell’immaginario della musica popolare l’album indimenticabile nasce laddove c’è del rischio, qualcosa può o va storto e i significati crescono dopo ogni ascolto spontanei, senza che il pasto sia stato preparato necessariamente a tavolino. Insomma,  After The End non è #1 Record dei Big Star, e non credo neanche ambisca a esserlo. L’importante, che vincano mainstream o indie rock, è ridare la giusta misura alle cose. Ci avete veramente preso tutto. Lasciateci almeno sperare di poterci ancora sorprendere, senza ricoprirci a forza di superlativi.