SUFJAN STEVENS – Houston 11 maggio, 2015, Jones Hall.
de Il Direttore
Dicono che la Main Street di Fredericksburg, caratteristica cittadina del Texas, incastonata fra le pieghe dolci della Hill Country, sia cosi estesa che, una volta che ti trovi a metà strada, fra i suoi due lati, ti sei già dimenticato perché avevi pensato di attraversarla. Tipiche esagerazioni texane dove il bello, si misura in modo entusiasta in unità di grandezza che lascino necessariamente a bocca aperta. Mi piace pensare che, quando Sufjan Stevens abbia pensato a una manciata di canzoni sul Texas, come parte del suo impervio progetto di musicare ogni Stato d’America, abbia avuto uno scatto di panico e gettato definitivamente la spugna, proprio pensando alla Main Street di Fredericksburg. Se non sbaglio, dichiarò proprio che, fra tutti gli Stati che avrebbe dovuto provare a descrivere in musica, il Texas era quello che lo metteva più a disagio. D’altra parte Sufjan è uno che sta bene solo quando sa di avere tutto sotto controllo. Come i compagni secchioni che però sono anche i nostri migliori amici. Non quelli con un centimetro di lenti da vista e un’incapacità congenita di rapportarsi con un mondo che sia altro da quello che studiano per ore, chini sui libri. Non quelli. Piuttosto i nerd che riescono, per dono dannatamente quasi divino, a essere sempre primi o quasi in classe ma hanno anche il pregio di esprimere la propria visione del mondo e condividerla con noi che gli stiamo intorno. Finiamo per perdonare il loro arrivare sempre e comunque primi. Siamo cresciuti insieme e ci siamo affezionati. Sappiamo che le loro vittorie rappresentano il loro limite congenito nel condividere completamente le nostre pene eroiche. Noi saremo ricordati per quell’unico trionfo, in un mare di sconfitte, loro non avranno mai il bacio della redenzione. Il loro controllo sulle proprie cose gli fa sempre tirare indietro il piedino all’ultimo momento. La loro congenita impreparazione a rischiare fino in fondo del proprio, li limita nell’abbracciare la fisicità imprevedibile del mondo. Sufjan è quel tipo di nerd, che preferisce pianificare a tavolino, imbrigliarsi nella progettualità e aspirare a quei traguardi alti che sono suoi di diritto. I suoi superlativi sono più concettuali che eroici. I suoi piaceri, più letterari che fisici. Eppure quest’uomo ha provato a riscrivere la Storia dell’America in musica, prendendo spunto dai suoi archetipi moderni più tipici e riconoscibili. Ha abbozzato il progetto, ma poi ha lasciato perdere quando ha capito che non ce l’avrebbe fatta mai. Ha alzato bandiera bianca, dopo un bilancio di pro e contro, piuttosto che immolarsi in un’impresa consumante, nell’era delle sintesi. Meglio essere saggi che pazzi. Eppure ci ha provato ancora, fra sinfonie di autostrade e odi a improbabili robot, con la mente pulsante di idee, per lo più rivelatesi incomprensibili. Non credo che Sufjan abbia sofferto per questo, circondato comunque dalla pletora di ammiratori eco-sostenibili da nuovo millennio, hipster con barba folta e curata e webzine comunque riconoscenti. Sufjan non ha sofferto e ha coccolato il proprio genio. Ha imbottito di fumetti, gadget e riferimenti new pop le sue ricerche, per mirare ai pieni voti, e si è sicuramente detto che era il mondo a non aver capito la portata delle sue ambizioni. Insomma, era tutto pronto per prepararci, noi anelanti il genio imperfetto e sanguinante di gloriose sconfitte, a distruggere di nuovo Babilonia e gridare contro il bello che avanza, inesorabile. Poi Sufjan ha scartato. Come quegli adorabili Nerd, che in fondo a una sfilza di otto nei compiti in classe, mentre noi arrancavamo aggrappati a sufficienze risicate, ci tendevano la mano, per mostrarci le loro ferite, Sufjan ha scartato. Carrie & Lowell guarda a quegli stessi fast food e supermarket, a quelle stesse cucine con il barattolo di burro di arachidi abbandonato sul tavolo, a quegli stessi pomeriggi sereni alla partita di baseball, a cui Sufjan aveva provato per anni a dare sostanza metafisica. Carrie & Lowell accarezza quei luoghi finalmente con dolcezza, evocandone i fantasmi che li hanno abitati. Come Mark Kozelek ha fatto con Benji lo scorso anno, il nuovo disco del cherubino racchiude l’America in un pugno di memorie che sta fra lo sguardo triste del cecchino di American Sniper e i dodici anni del protagonista di Boyhood di Richard Linklater. L’America salvata dal senso di perdita di un ragazzo che non saprà mai urlare il suo dolore al mondo e quindi lo contestualizza. La madre come nuova figura di culto del. rock’n’roll. Sostituita la ribellione che non trova più eserciti di cuori pronti a farsi travolgere, con la carezza dell’unica persona di cui mai si potrà mettere in dubbio l’affetto. Sufjan, l’ex- cherubino, si presenta al pubblico da solo con le sue canzoni sussurrate alla madre, sormontato da una serie di losanghe imponenti, dove verranno via via proiettate le sue immagini d’infanzia e fermo immagine della costa dell’Oregon, dove ha attraversato la sua infanzia. Sembra di stare in una di quelle chiese finto gotico di tante città d’America. Una di quelle in cui un adolescente Sufjan provava a muovere i primi passi fra le note, cantando la sua fede incerta al signore. E’ accompagnato da quattro elementi, e si capisce da subito che il ragazzo, come sempre, è preparato. Lo spettacolo (perché di questo si tratta) viene governato dall’ex-cherubino, fra giochi di luce, fotogrammi di bambini e madri e chiaro scuri acustici ed elettronici. Perché, nonostante la veste intima delle canzoni del disco nuovo, mai Sufjan rinuncerebbe a provare a guardare oltre. Anche maldestramente, come nella resa astrusa di All Of Me Wants All Of You, che regala l’intensità del disco a un vestito sintetico che non sembra andare da nessuna parte. Ma è un attimo. Basta che arrivi 4th Of July ed è come rivedere il ragazzino di Guardians Of The Galaxy che lascia la mano della madre morente all’ospedale, per racchiuderne il ricordo nell’intimità di un’audio cassetta di canzoni anni settanta. Se il mondo è un mostro, il nostro amuleto ci renderà invincibili. C’è chi si fa venire gli occhi lucidi, ma sempre con compostezza. Sufjan intanto armeggia fra banjo, chitarra, piano e ogni tanto passa la mano fra le tubular bells sotto la tastiera. Meno piume e cori che con Illinois, ma comunque la stessa voglia di essere primo della classe. Eppure, saranno i fantasmi di Carrie & Lowell, sarà quella perfetta combinazione di pieni e vuoti, silenzi e sussurri e quell’appena accennata maggior coralitàlive che impreziosisce la nudità del disco ma, pur in modo totalmente non fisco, la partecipazione all’evento è intensa. La conduzione irreprensibile dell’ex-cherubino raggiunge il culmine con Blue Bucket Of Gold in cui il finale strumentale, viene dilatato all’infinito in uno tsunami calmo da undici minuti, che si appoggia su luci bianche che anelano a una divinità sintetica e galleggia su qualcosa di impalpabile fra Brian Eno e gli Spiritualized. Quasi un esercizio di bio – psichedelia nella terra dove la psichedelia è di casa. Sufjan ha fatto bene i compiti. Raggiunto lo scopo, si mette il cappello da baseball, prova a raccontare una storia di liceo e ci spiega come le canzoni tristi siano un esorcismo che porta gioia. Ultima lezione prima di sciogliersi e imbracciare il banjo. Sfilano ancora i Sette Cigni, la sorella e viene spedita una cartolina dall’Illinois. Entra anche qualche ottone, ed è tutto preambolo e attesa per quel “Libro dell’Inquietudine” che è Chicago, qui resa con uno spruzzo di elettronica che avvolge il sussurro di Sufjan, su uno dei massimi momenti della musica Pop degli anni zero. Guardare l’America senza avere l’ansia di parteciparvi. Stare alla finestra per salvarla. Ho fatto un sacco di sbagli, Pessoa avrebbe applaudito, anche lui. Sulla via di casa, sono in auto, con amici che, come da copione, tessono le lodi di quel genietto con il cappello da baseball, il banjo e le losanghe sopra di lui. Mio figlio da casa mi scrive un messaggio sul cellulare. “Ma dove siete che non riesco a dormire, perché sto accanto a mia sorella, che se si spaventa almeno sono qui io. Ma dove siete”. Mio figlio, cuore indomito, con un piede sulla Main Street di Fredericksburg, grande e incognita, pronta a mangiarselo. Come Sufjan, davanti al racconto di un’America infinita che non perdona, aggrappato alla gonna della Madre, con tanta paura di fare errori.
Il Direttore
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