Riprendo il privè dopo lungo tempo, per una disquisizione privata, noiosa, scontata, e rivolta soprattutto a me stesso. Desistete subito dalla lettura.
Avevo accolto come una benedizione il fatto che il derby si svolgesse alle 18,00 del sabato. Per una volta l’idiozia dell’asservimento alle esigenze televisive del calcio a tutte le ore giocava a mio favore. Ero in negozio, lavoravo, e non avrei potuto vederlo. Una forma di autodifesa, un pezzo di cartone a riparo dalle inevitabili raffiche di incazzature, sfighe e livore. Verso le 17,45 Backdoor si è svuotato e la scintillante Piazza Barcellona si è abbandonata al suo presente di immondizia e macchine parcheggiate fuori dagli spazi blu a pagamento. Da lì in poi qualche disgraziato che tirava già i mortaretti di capodanno (mancano solo due mesi, in fondo), un imprevedibile acquirente di Zappa e poi il nulla. Due amici a confortarmi nel finto disinteresse. Il primo ci ha salutato al termine del primo tempo, il secondo mi ha sostenuto fino alla fine. Grazie Andrea, per giunta avevamo festeggiato il tuo compleanno. Ascoltavamo dischi che ci ricordavano i nostri gruppi preferiti: gli Ultimate Painting per i Velvet Underground, gli Eyelids OR per i Big Star. Poi ogni tanto aggiornavamo il sito di Repubblica e guardavamo il risultato. 1-0, merda. 1-1 Bovo, incredibile. Ci imponevamo di stare di là, in negozio tra i vinili. Non facciamoci del male, torniamo tra dieci minuti, quanto manca? Poi, verso la fine, non abbiamo resistito e i tempi di verifica si sono accorciati. Teniamo il pareggio, va bene così, va bene così. Fisicamente ci siamo spinti via dal computer. Torniamo alla fine. E così abbiamo fatto, con lo stomaco a pezzi e una vaga certezza di esser massacrati da quanto avremmo letto. Inevitabilmente, è andata come temevamo. 2-1 per la Juve, ultimo secondo, Cuadrado. Di nuovo. Non è possibile, dai. Che sfiga. No, forse gli altri hanno più voglia di vincere. Vero, magari siamo noi che non sappiamo mai tenere il risultato. E avanti così, l’ancora dopo ve lo risparmio. Andrea, che non era nemmeno nato quando abbiamo vinto l’ultimo scudetto, se n’è andato nel buio metallizzato di fine giornata e io ho tirato giù la serranda. Ecco, questa è l’immagine definitiva del mio rapporto con il Toro e con il calcio: chiudo. Sono esausto, per me va bene così, non ne ho davvero più. Fine. Conosco gente che ha smesso con l’eroina (e si è di sicuro divertita più di me), dovrei farcela anche io con il Toro. E l’unico modo che conosco per staccare è quello del tacchino freddo, mollare tutto subito. Ho appena dato disdetta a Sky Sport (rinunciando persino al mio adorato tennis), certo che non vedere è già quasi non sapere, e quindi non patire. Mentre tornavo a casa ho trovato il metrò pieno di mostri. Fittizi, con le facce imbiancate e i ragni di gomma, che andavano a festeggiare Halloween da qualche parte. E reali, un gruppo di ultras romani della Juve, sovraeccitati, che puzzavano di birra e avevano dei tatuaggi fatti male sul collo. Esibivano scritte nazi fasciste sugli zaini e mostravano evidente ostilità verso un ragazzo di colore seduto davanti a loro. Io non voglio avere più nulla a che spartire con tutto questo, sono stato un ragazzo di curva, ma non ho mai subito il fascino degli ultras. Mai. È gente che al di fuori dello stadio disprezzo profondamente e non capisco perché dovrei tollerare intorno al prato di gioco. Gioco che peraltro mi annoia da anni, sempre più simile a un disco di Springsteen: pochezza assoluta pompata dalla retorica più stordente. Odio i calciatori, tutti tatuati come dei circensi in avaria, esagitati nell’esultanza, irrimediabilmente simili al loro primigenio generatore: Diego Armando Maradona, il sire della volgarità e del qualunquismo populista. Non vado più allo stadio da una vita e mi domando come mi possa ancora appassionare dopo Moggi, i mondiali in Qatar, i boia chi molla scritti a biro sulle maglie, le scommesse, i politici che vanno a caccia di voti in curva, gli errori di grammatica sugli striscioni. Basta, sono pieno di dischi da ascoltare e libri da leggere. Voglio essere come quelli che non sanno nemmeno chi ha vinto l’ultimo scudetto, invidio il mio amico Antonio, che non ha più il suo Brindisi da tifare. Ecco, desidero anche io non avere più nessuno da tifare. Essere ateo, sganciarmi anche da questa presunta “fede”. Ho mollato gesùcristo, dovrei farcela anche con Cristian Molinaro. Quindi ho preso tutti i libri sul Toro e sul calcio, le maglie e le sciarpe e le ho messe in un baule, vicino all’abbigliamento da sci e ai quaderni delle elementari: tra le cose morte. Domani compio quarantanove anni e sento il dovere di regalarmi un briciolo di ragionevolezza. Giusto smettere con il Toro di Ventura, un allenatore che, mi sia concesso, ho sempre detestato. Lui e il suo presuntuoso calcio alla Lucio Fontana in orizzontale, tagli continui, ripetuti, inutili, eterni, con la sola variante di un passaggio indietro al portiere (lo so, quello non è un portiere). Giusto smettere con un campionato dominato da giocatori stranieri, la cui maggioranza è stata scelta per il fisico e non per i piedi. Giusto smettere dopo una sconfitta con la Juve, squadra che ho ovviamente odiato sportivamente e per ciò che (e chi) rappresenta nella mia città. Ultimo allenatore amato: Gianni De Biasi. Ultimi calciatori che mi hanno esaltato (per ragioni diametralmente opposte) Matteo Darmian e Maxi Lòpez. Idoli di sempre: Paolo Pulici e Gary Lineker. Io me ne vado. Buona fortuna a chi resta. Addio.
Maurizio Blatto
(in sottofondo The Tired Sounds of Stars of the Lid)
PS
il mio vero addio al calcio, felice e tra amici, sarà questo.
Venerdì 27 novembre, ore 21.30:
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