Per la serie Grandi Ospiti, ecco uno sfavillante contributo del Direttore (aka Mauro Fenoglio), nostro amico, colonna portante backdooriana e stimata firma di Rumore.
Pregevole e raffinato. Vogliate gradire.
Io non vado da nessuna parte
di Mauro Fenoglio
“Tu non vai da nessuna parte”.
È diventato un mantra, in questo gaio tempo pandemico.
Che poi non è che te lo impongono col fucile, come se fossi un cittadino di Wuhan tirato su a brodo e pangolino. Ti prendono a sberle a forza di dpcm (acronimo che può essere anche declinato come risposta ai decreti. Urlando, mentre si volge lo sguardo in alto verso una serie di divinità incuranti del nostro destino).
Oppure, se vivi nel sud est degli Stati Uniti come me, te lo dicono senza dirtelo. Mettendoti paletti strategici. Puoi uscire, fare i tuoi giri a piedi (sempre e inesorabilmente lo stesso giro, da marzo) ma se provi a prendere un aereo per una destinazione oltre oceanica, non è detto che ti permettano di ritornare, in un trionfo di cavilli e permessi mai sufficienti. Puoi andare in un ristorante (che non si sognano di chiudere) e a tuo rischio e pericolo, dare il tuo personale benvenuto al virus. Insomma, ti puoi muovere dove ti dicono gli altri (e andare dove non ti frega nulla), ma non dove vuoi tu.
E allora non puoi che dirti, sconfitto: “Io non vado da nessuna parte”, mentre affondi sul divano, testando il limite della sua resistenza nel tempo, dopo la quarta ora ininterrotta di televisione.
Eppure, quando il tempo (il tuo) era ancora un concetto che aveva un suo significato e non si limitava a giri di lancette sempre uguali, “non andare da nessuna parte” poteva essere una cosa meravigliosa. Anzi, è stata spesso proprio la musica che “non va da nessuna parte” a farti sentire vivo e unico.
Ultimamente, magari in fondo ad una giornata senza possibilità di un domani che provi ad essere diverso da ieri, mi è capitato di ripensare a Thirteen dei Teenage Fanclub e a come fosse meraviglioso dire “io non vado da nessuna parte” solo qualche tempo fa.
Inutile spiegare chi siano i Teenage Fanclub qui dentro. Scozzesi, ma più americani che britannici. Baciati dal titolo di “più grande band del mondo” da Kurt Cobain in persona. Fra furia giovane, meraviglioso cazzeggio e innocenza, nell’anno di grazia (assoluta) 1991, col loro miracoloso Bandwagonesque.
Ecco, Thirteen arriva due anni dopo il capolavoro.Norman, Gerald, Raymond e Brendan decidono che è arrivato il momento di non andare da nessuna parte. Un disco che guarda dritto alla loro fonte d’ispirazione primigenia, quei Big Star che già negli anni 70 ebbero i loro guai nel far capire il loro verbo da meravigliosi sfigati. Un disco che non si preoccupa troppo di essere fuori tempo massimo (rispetto ai trend dell’epoca). E infatti Thirteen all’uscita riceve riscontri che vanno dal tiepido all’apertamente negativo. Solo col tempo i fan più verticali lo riabiliteranno (a volte anche con gli interessi).
Ma qual è il segreto aureo delle sue canzoni?
- Partire con frasi melodiche che non si preoccupano minimamente della sintesi (meglio se lievemente dissonanti, anche nella loro apparente gaiezza)
- Unirci testi che si guardano addosso, magari ripetendo la stessa frase ad libitum
- Scegliere la chitarra come motore per combinare 1 e 2 in un flusso da cui, a forza di ascoltarlo, si finisce per non volerne uscire più. Avendo coscienza di eleggere l’’assolo fine a sé stesso come veicolo, appunto, fuori tempo massimo (è l’inizio dei 90, baby. A te piace il power pop e gli anni ’70, ma noi abbiamo lo shoegaze)
- E niente lezioni accademiche sull’arte della ripetizione, tipo i nastri disintegrati di Basinski o le vertigini dell’’ascetismo elettronico degli Autechre. Qui si parla di assoli di chitarra, spesso pigri e senza pretese di cambiare l’ordine naturale delle grandi cose che governano il mondo.
Thirteen è un po’ tutto questo, nella maniera meno cosmeticamente adatta al tempo della sua pubblicazione, senza il supporto dell’appeal fresco dello straordinario predecessore.
Ascoltatevi la coda pigra, tutta flauto e archi, di Hang On (sberleffo al brit pop poco prima del brit pop), le 10 ripetizioni 10 di “I’m In Love With You” di Norman 3. O lasciatevi convincere che “When I See You Cry I Think Tears Are Cool”, come canta Gerald Love nella tenera Tears Are Cool, prima che parta l’ennesimo assolo che non ha davvero voglia di piantarla lì, se non quando rientra la ritmica, è l’unica frase che vi è rimasta in tasca, quando tutto sembra finire. Tutta roba che per il 1993 era già ben più che passata di moda, ma su cui ritornare, e ritornare, e ritornare, è stato un piacere e un sollievo per tutti questi anni.
Almeno per me, che ve lo sto a raccontare qui dentro.
—https://www.youtube.com/watch?v=omeoWJ8SHrY—
Certo, parliamo di un esempio fra tanti.
Altri?
Il premio del “io non vado da nessuna parte” è sicuramente nella coda infinita di Cortez The Killer di Neil Young (uno che del non andare da nessuna parte ha fatto una ragione di vita musicale). Che poi, Doug Martsch dei Built To Spill ha coverizzato, trasformandola in un meraviglioso challenge da una ventina di minuti, trionfo assoluto del non andare da nessuna parte.
—https://www.youtube.com/watch?v=uX9k9aoX6gk—
—https://www.youtube.com/watch?v=TNOvqFISxIc—
E cosa vogliamo dire di Mr. J Mascis e di cosa sia per lui il non andare da nessuna parte, a colpi di chitarra che si guarda allo specchio? Senza andare troppo lontano, quante volte vi viene voglia di riascoltare Get Me dei suoi Dinosaur JR e sperare che non finisca mai? Che ci sia l’ennesimo assolo di chitarra ad attenderci al minuto 9?
—https://www.youtube.com/watch?v=ybExfDHg1i0—
Se poi vogliamo parlare di assoli circolari, allora rivolgiamoci a Mark Kozelek (sempre che ne sentiamo ancora parlare, dopo la sua scivolata in territori presidiati dal tribunale Me Too). Prima che la sentenza sia certificata, facciamoci un giro dentro all’ultimo disco dei suoi Red House Painters (Old Ramon del 2001) e mettiamoci al volante nella notte di Los Angeles, fra le sciabordate di Cruiser. Oppure perdiamoci nelle calme acque scure del fiume padre, fra le radici legnose di Carry Me Ohio (da Ghost Of The Great Highway dei suoi SunKil Moon, 2003) o scopritevi affascinati dalla geografia e la toponomastica, fra gli arpeggi circolari di Third And Seneca (da AdmiralFellPromisesdel 2010). Canzoni che iniziano sapendo già che non finiranno mai, continuano inesorabili nella loro incapacità di evolvere, sapendo di avervi preso per il collo per convincervi a non abbandonarle più.
—https://www.youtube.com/watch?v=O6qKGijRAeA—
E allora si che era dolce dirsi “io non vado da nessuna parte” e sapere che quelle canzoni sarebbero rimaste con me per sempre. Le avresti abbandonate per un po’ con la scusa di rimetterti al pari col presente, per poi ritornarci dentro quando quel presente si faceva meno accogliente. E ricominciare da lì, esattamente dove le avevi lasciate.
Adesso, che il nostro “non vado da nessuna parte” e diventata asettica dannazione quotidiana, sono tornato su Thirteen. Era qualche anno che non lo facevo. Capita sempre così con i dischi dei Teenage Fanclub. Ho lasciato che Hang On si faldasse fra il flauto e violini, sono passato nel cortile al crepuscolo di 120 Mins, attraversato le strade finto blue(s) di Escher, accarezzato una volta ancoraTears Are Cool…..
…..e alla fine mi son detto “Ma io, davvero, dove cazzo devo andare…”.
Ora vi lascio, che stanno iniziando gli otto minuti di Gene Clark (pezzo conclusivo e riassuntivo di Thirteen)
—https://www.youtube.com/watch?v=PzKFH-m9NGU—
e io so (perché lo so) che dopo le sciabolate di chitarra a zampa d’elefante, allineata lungo sulle note di Cortez The Killer, a 3 minuti e 40 secondi circa, come sempre, arriva la voce di Gerald Love a rassicurarmi che almeno fino a qui siamo arrivati indenni.
Domani si vedrà.
“No matter what you do it all returns to you
No matter what you say you’ll hear it all someday.”
(continuate a ) comprare Teenage Fanclub, Neil Young, Built To Spill, Mark Kozelek e Dinosaur Jr
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