La prima volta che ho visto Lou Reed è stato all’inizio degli anni ottanta, in un parco cittadino. Di fatto, eravamo ancora negli anni settanta. In queste occasioni tutto era politica ed eroina, un binomio indissolubile per molti. Mi sono sempre tenuto alla larga da entrambi. Andai e tornai dal concerto con l’autobus, da solo. Sembravano tutti un fumetto di Andrea Pazienza. E io, i fumetti di Andrea Pazienza, non li ho mai capiti. Mai. Bellissimi disegni, ma le storie mi sfuggono sempre. Non mi è mai chiaro che cosa stia succedendo. Il pubblico di Lou Reed, almeno per quella sera, era per la maggior parte composto da strafattoni e gente che reclamava, o meglio, pretendeva qualcosa. Chi non era marcio sapeva che gli spettava qualcosa, e lo urlava. Mi parve subito chiaro che nessuno fosse lì per la musica. Per Lou Reed. E quindi li odiai tutti e amai Lou. Ero pronto per gli anni ottanta: individualista, snob, goffamente cinico. Come tutti, passai intere giornate ad ascoltare i suoi dischi e i Velvet. Pomeriggi interi, senza interruzioni. Grazie a Lou amai tutti i parlatori e iniziai a odiare gli urlatori senza ragioni, le voci acute dell’hard. Dimmi poche cose, dimmele senza esagerare. Andai a vederlo tutte le volte che passò da Torino. Durante il tour di Magic And Loss un povero disgraziato iniziò a urlare Heroin dalla seconda canzone. Heroooin, Heroooin. Evidentemente era un sopravvissuto, appunto, alla scrematura dell’eroina cittadina, segno che in qualche modo si può anche uscire vivi dagli anni settanta. Andai a Milano alla reunion dei Velvet e mi divertii come un matto. L’ho visto l’ultima volta a Torino, quando si esibì per le Olimpiadi invernali, con il suo maestro di Tai Chi sul palco. L’ho persino intervistato, se così si può considerare una sola domanda consentita in un hotel milanese in cui una notte costava come il mio stipendio di due mesi. Mi è sempre sembrato un figo. Duro, scostante, secco. È passato indenne a tutto e chiunque gli deve qualcosa. Come allora, con gli zombie anni settanta sul pullman, ho continuamente pensato che fosse sempre nel posto esatto. Soprattutto musicalmente. Così quando ieri ho saputo che era morto mi sono enormemente rattristato. Come capita per i lutti privati. Non ho mai avuto eroi o miti, o quanto meno non li ho mai celebrati pubblicamente. Mai fatto autografare un disco, mai tentato di “conoscere qualcuno”. Ognuno al suo posto, bastano i dischi. I ricordi, anche questo, sono tutti banali e, banalmente, l’ho celebrato mettendo su un suo vinile. Berlin, edizione best buy, comprato millenni fa in un supermercato (Città Mercato, per la precisione) alla vigilia di una vacanza di giugno al Lido degli Scacchi, tra piogge e zanzare. Con Berlin mi predisponevo già per l’allegria estiva, come si suol dire. E, banale per banale, sono partito dal fondo, da Sad Song. Nel frattempo arrivavano messaggi e sms da amici. Alcuni mi informavano che Emanuele Filiberto e Formigoni lo rimpiangevano via twitter. Tristezza su tristezza. Ho acceso la tv e un asino sul TG2 ricordava come se ne fosse andato in una Sunday Morning, come la canzone cantata da Nico. Quella canzone la cantava Lou Reed, bestia che magari manco hai il disco a casa. Così ho pensato come avrebbe reagito lui, a tutto questo. Ai milioni di me che lo rimpiangevano con le sue copertine in mano, accasciati su un sofà. È partita Men Of Good Fortune, e verso la fine, dopo aver fatto un bilancio delle ricchezze che si ereditano o non si avranno mai, dice And me I just don’t care at all. Ecco cosa avrebbe detto Lou. A me, a me non frega proprio un cazzo.
Maurizio Blatto