Sul numero di febbraio 2013 del Mucchio Selvaggio c’è un bell’articolo di Chiara Colli, intitolato “Last Shop Standing. Il vinile ci seppellirà”. È un’analisi della (dorata? eroica?) sopravvivenza dei negozi di dischi indipendenti. La rotta è Londra-Torino-Firenze-Roma. Circostanziato, scorrevole e molto preciso (caratterista rara, ahimè), l’articolo contiene varie testimonianze dirette. Tra le quali la nostra, con diversi estratti da un’intervista che, grazie alla gentilezza di Chiara, riportiamo qui integralmente.
1. Cominciamo da qualche accenno sulla storia del negozio: quando ha aperto? Qualche passaggio “saliente” della sua esistenza?
Backdoor nasce nel 1982. Trent’anni di onorata carriera. Lo apre il Signor Franco e, inizialmente, lo chiama Metal Bridge. Una grande decalcomania a muro del ponte di Brooklyn e la scelta di puntare sul metal giustificano la scelta. Poco dopo (esattamente quando il metal inizia a “tirare”) vengono abbandonati metal, nome e la decalcomania scompare dietro poster e copertine di vinili. La new wave impera e si spazia fino al reggae. Grande attenzione per i gruppi italiani (Stefano Giaccone, già nei Franti, lavora per alcuni anni in negozio) e per tutto ciò che oggi etichettiamo come post punk (molto in linea con la stereotipata immagine di Torino grigia e industriale). Tra i primi, Backdoor cura collezionismo e vendita per corrispondenza (catalogo amanuense spedito via posta). Io faccio il salto del bancone da cliente a commesso e poi socio, cancellando la più veloce carriera da (non) avvocato di tutta la storia forense. Il vinile, anche nei periodi bui e difficili, non viene mai abbandonato. Nel “solco” della tradizione.
2. Chiaramente il tema saliente dell’indagine sui “last shops standing” è strettamente connesso con la crisi dell’industria musicale: sebbene sia un’evidenza innegabile, ci sono varie versioni sulle motivazioni che hanno portato prima l’industria musicale a entrare in crisi e poi molti negozi di dischi indipendenti a chiudere. Quali sono secondo te, e secondo la tua esperienza, i motivi principali per l’Italia? Puoi darci un’indicazione temporale di massima di quando la situazione è cominciata a cambiare?
Molto semplice. Tutto è cambiato dopo la diffusione mondiale del download illegale. Non ci vuole il cast di C.S.I. per capirlo. Poi qualcuno avrà lavorato male, qualcun altro non sarà stato propositivo o magari poco appassionato o aggiornato, ma la faccenda gira tutta intorno al filesharing. Dopo il Ground Zero di cinque anni fa circa, i pochi sopravvissuti (forse i più attenti e professionali), hanno ricostruito su quanto rimasto del mercato
3. Com’è la situazione a Torino?
Torino se la passa molto meglio di tante altre città. Ha una solida tradizione di passione musicale e di acquisto (ma non solo, ha moltissime librerie e parecchie sale cinematografiche). È una città europea che non si vanta di esserlo. Lo è nei fatti. Io ho comprato in molti posti diversi, ma Backdoor, prima che diventasse anche mio, è sempre stato il mio negozio di riferimento.
- 4. Backdoor è a tutti gli effetti un last shop standing: quali sono i punti di forza del negozio, i motivi per cui secondo te ha resistito e sta resistendo a questo periodo buio per la cultura in generale, intesa come bene che merita di essere pagato per il valore che ha?
Backdoor è un rifugio solido e accogliente per gli appassionati musicali. Lo dico senza retorica perché lo è anche per me. Chi viene in negozio si compra sì dei dischi, ma anche una fetta di buon tempo. Sa di incontrare suoi “simili”, le sue follie saranno reputate normali. Qualcosa a metà tra il Circolo Pickwick e la bocciofila pop. Se resistiamo con soddisfazione è anche per questo. Poi, commercialmente parlando, paga anche la passione (terminale, la mia), l’offerta (rarità e piccole etichette, usati e collector) e un certo senso di condivisione. Tipo domandarsi a marzo “Sai già il tuo disco dell’anno?”. O anche “Ho rivisto la mia playlist del 2008, guarda un po’”. Roba così, malattie di goduria.
5. Se invece dovessi individuare alcuni errori che sono stati fatti sia dalle etichette che dai negozi di dischi…?
Bè, alcune etichette hanno fatto dischi brutti, ma questo è normale. La major (le tante odiate major che però hanno stampato il 99% dei dischi di classic rock su cui tutti, soprattutto i giovanissimi, sbavano oggi) non hanno forse voluto vedere il futuro com’era realmente. Ma, insisto, se non fosse intervenuto il download selvaggio, non parleremo di tutto questo. Per quanto riguarda i negozi, ognuno ha la sua storia. Credo, in generale, che chi avesse più competenza e curiosità sia stato premiato. Chi compra riconosce i suoi eguali, anche se sono dall’altra parte del bancone.
6. Che politica dei prezzi avete? È stato un aspetto che avete dovuto cambiare negli anni? “Gli affari” come vanno rispetto a 20-10 e 5 anni fa?
Un luogo comune da discorso da bar è “si lavora il doppio per guadagnare quello che si guadagnava cinque anni fa”. Ecco. Noi abbiamo prezzi che vanno dal disgraziato (le casse dei due euro –non si ascoltano, non si cambiano- buttate in basso) al collezionismo d’elite. Molti vinili a 10 euro (occhi che brillano, fammi vedere che magari scovo qualche meraviglia) e la quasi totalità dei cd usati a 7,50 o 5 euro. Se i giovanissimi comprano di più ultimamente? Direi di sì, e soprattutto vinile e grandi classici. Certificano con begli oggetti passioni nascenti e file mp3 tenuti come polvere ovunque. È sempre una bella soddisfazione dover “spiegare” (e vendere) Velvet Underground e Stooges (ma anche Smiths o Slint).
7. Ci sono mai stati momenti in cui avete pensato/rischiato di chiudere?
Non direi. Però quattro o cinque anni fa il futuro era molto Bauhaus. Nel senso di nero e cavernoso. Ma io sono cresciuto a pane e Big Star, mi basta un ritornello azzeccato e il mio ottimismo sgomita.
- 8. Metto in dubbio che sia un periodo di crisi nera per tutti i negozi di dischi indipendenti. Com’è in questo senso la situazione per Backdoor? Mi confermi il ritorno e la scoperta (spesso perché fa fico, ma tant’è) del vinile, soprattutto tra i giovani?
Parlando in senso strettamente commerciale: se il mercato da 1000 diventa 100, ma tu ne conservi comunque 70, le cose non vanno poi così male. Una realtà piccola, se mantiene il “suo” sopravvive e se la spassa moderatamente. Cosa posso dire se non ogni bene del vinile? Noi ne siamo fidati custodi dal 1982 e, sarà anche vero che è di moda (merda, si vede pure nelle pubblicità degli alcolici per superfighi palestrati, che magari ci ascoltano Christopher Cross…), ma di sicuro rimarrà. Ricorderei anche che il cd doveva esser già morto e sepolto da almeno tre anni e invece. Ma il vinile resisterà, perché è il premium definitivo della musica. Puzza e profuma, ha copertine bellissime e orrende, per fortuna o purtroppo ti costringe a leggere i testi. È scomodo e richiede manutenzione. In un mondo di comodità indesiderate ed esteticamente deprecabili, si erge come meraviglia assoluta.
9. Backdoor è aperto da parecchi anni: qual è stato il periodo migliore per tutto “il carrozzone” indie?
Direi che l’avvento del post rock è stato indimenticabile. Seconda meta degli anni novanta. Esplosione di etichette, tutto apparentemente nuovo. Adorabilmente “minore” e contaminato. Quando uscì Four Great Points dei June of 44 avevamo la gente fuori che aspettava la sua copia battendo i piedi. Aprivo il negozio e dicevo “Dacci oggi il nostro Slint quotidiano”.
- Parliamo di Torino: dai negozi, alle band ai giornalisti è una città di grande fermento per la musica, credo anche più di Milano: tu che fai parte che questa storia l’ha costruita, sai darmi delle spiegazioni, individuando qualche momento/evento/personaggio chiave di questa vitalità musicale della città?
Di Torino in parte ti ho già detto. Siamo abituati a inventare e produrre. Quasi sempre in autonomia. A commercializzare (o a fregarci le idee, secondo un luogo comune sabaudo) ci pensano poi i milanesi. Ma una certa tradizione rimane. Mi sembra di poter dire che qui le cose durano di più (la moda e la velocità, quelle sì, toccano ai milanesi) e, oltre a essere –almeno per me - una caratteristica positiva, si creano così le condizioni per un “ricambio assistito” di chi suona, scrive o anche solo fa il pubblico ai concerti. Non sono sicurissimo che sia ancora del tutto vero, ma lo spero vivamente.
- La tua esperienza dentro le mura di Backdoor ti ha portato a scrivere un divertente “trattato” sulla vita in un negozio di dischi, che alla fine è una scelta “esistenziale” non solo per via della passione per il “rock’n’roll”, ma anche dal punto di vista umano (il famoso “garantire assistenza” con cui inizi il libro). Quanto ti diverti ancora a fare questo mestiere? Voglio dire, questa benedetta crisi ha fatto perdere il senso dell’unicità del lavoro che svolgete, o riesci ancora ad avere lo spirito giusto?
L’ultimo disco dei Mohicani, il mio libro, è stato un piccolo successo proprio perché ha chiamato a raccolta (riuscendo anche a superarlo, per fortuna mia) tutto quel mondo di appassionati che sembrava disperso. Durante le molte presentazioni del libro, venivo sempre ringraziato per aver dato una sorta di legittimità letteraria a quel manipolo di eroi consapevoli che ancora frequenta e sostiene non solo i negozi di dischi, ma la musica stessa. Poi, banalmente, mi sembravano storie troppo divertenti per non esser raccontate e volevo farlo nello stesso modo in cui mi sono smarcato dalla stretta critica giornalistica. Pop fiction. Abatantuono e Billy Bragg. Tutto questo non ha mai intaccato la mia passione personale. Compro ancora moltissimo, mi piace il mio mestiere, leggo un sacco di riviste, sono affamato di ascolti e ogni volta che mi arriva un pacco di dischi nuovi è come soffiare sulla mia torta di compleanno.
- Il sito, un po’ come propaggine de L’ultimo disco dei Mohicani (o forse è l’idea di quest’ultimo che è arrivata dopo?) contiene delle perle da sbellicarsi dalle risate con le richieste di clienti occasionali del negozio: daccene un paio per chi non ha letto il libro o visionato il sito (o anche delle perle aggiornate, se ci sono).
Il sito (www.backdoor.torino.it) raccoglieva le raccolte bizzarre che hanno dato poi il via al mio libro. La gente mi scriveva dicendo che aveva le lacrime agli occhi dal ridere. Potevo non dargli seguito? Una bonus track veloce? Eccola. 24 dicembre: “Ce l’ha quello di Baglioni che canta le canzoni di Natale”. “No, mi dispiace, abbiamo cose più rock, meno commerciali”. “Ah sì? Ma, tutto sommato meglio così. Che poi ancora mi toccava ascoltarla ‘sta cagata. Auguri”. “Auguri a lei”.
- Stilare una tipologia della clientela è difficile, ma mi chiedevo se al di là dei clienti affezionati e degli extraterrestri di cui sopra, fosse possibile tracciare un’evoluzione dei clienti nel corso degli anni: se l’età della maggioranza dei clienti è cambiata, se ci sono inversioni di tendenze negli acquisti che vanno per la maggiore, se il modo di vivere il negozio di dischi è cambiato.
Chi era appassionato di musica e di dischi (il supporto fisico, da smanazzare), secondo me ora lo è ancora di più. Vive con orgoglio e vanto guerriero la sua mania personale. La “crisi” e una certa tendenza all’archeologia vintage (o alla ricerca del colpaccio) hanno ingrossato le fila dei “dov’è il settore delle offerte?”. Ci sono meno clienti occasionali, ma più turisti mirati, tipo “prima di vedere la Mole sono passato da voi” (li adoro).
- Approfitto del fatto che sei anche giornalista musicale per ampliare il discorso: un’opinione lapidaria sul perché in Italia la cultura, e la musica nello specifico, non viene intesa come un bene per cui non solo è necessario, ma è anche giusto, spendere dei soldi: parlo dei dischi, come delle riviste, come della corsa agli accrediti per i concerti (ora, l’editoria nella sua versione cartacea in tutto il mondo sembra al capolinea, ma noi siamo oggettivamente ai minimi termini). Lo sappiamo tutti che non è solo la crisi, ma è una forma mentis. Da dove viene secondo te?
Dal fatto che siamo italiani e prevale la tendenza a essere sempre più furbi. Pensare che i musicisti campino d’aria, che le etichette le sostenga il WWF (e dovrebbe, prima ancora del ghiottone muschiato). Perché ogni tanto qualcuno mi porta un demo (che quasi sempre fa pena) della sua band e mi dice “minchia le etichette non ci cagano”, ma poi non si ricorda l’ultima volta che ha comprato un disco. Il futuro di tutti quelli che gravitano intorno al mondo musicale sarà di esser dopolavoristi di un primo lavoro che non esisterà più. La dignità culturale che questo Paese insopportabilmente anomalo riserva alla musica è degna del suo regime IVA. Un disco vale meno di un libro? Qualche minchione si è preoccupato di guardare come vengono trattati i musicisti in Francia? Perché gente come Ciampi o Tenco (e non parlo degli Unbelievable Cazzons, ma di Ciampi e Tenco) non ha il proprio catalogo disponibile almeno in cd? Perché ho centomila canali tv (da padre Pio alla pesca del luccio selvatico) ma non uno che si occupi con competenza della musica? Perché la gente spende mezzo stipendio per vedere gli U2 da mille chilometri di distanza per fotografare il palco (Hai visto quant’è grande? Ma cos’è un membro equino? E poi che cazzo significa, ha un valore questa metratura?) e poi non tira fuori cinque euro per un gruppo di Vancouver o Pontremoli che è come lui e “spacca” cento volte di più? Il punk ci ha insegnato solo a essere maleducati? La democrazia orizzontale del web (tutto disponibile gratis ora, dai) ci ha aiutato? Ci ha regalato nuove band esaltanti? I Minutemen, ve li ricordate?
- Mi sembra di capire dal sito che lavorate anche online: è possibile consultare il catalogo e anche acquistare, giusto? Riuscite a fare un po’ di cassa (per dirla brutalmente) anche con la vendita via internet?
La vendita per corrispondenza è sempre stato un nostro valore aggiunto. Il sito, ma soprattutto clienti affezionati sparsi per l’Italia. anche parlarsi al telefono consigliando nuove uscite è un bel momento.
- Tu stesso dichiari che, dovendo scegliere, il vinile è il tuo supporto preferito e ormai professarsi sostenitori del cd è un’eresia. Come vedi questo ritorno del vinile? Una moda, un ritorno inevitabile, una salvezza per i negozi di dischi che c’hanno visto lungo e non hanno mai smesso di trattarli?
Sul vinile mi sono già espresso. Ma non ho quest’odio unno verso il cd. Io stesso ne ho molti e mi piacciono usati. Costano poco, li puoi sbattere in macchina. Ti consentono di essere più grezzo nell’approccio tattile. È plastica.
- Il grande faro dei negozi di dischi indipendenti è Rough Trade, nella sua versione a Bricklane: un luogo un po’ a parte rispetto alla situazione internazionale, che si è creato uno status a sé ed è stato capace di fare tendenza ma anche di far interessare al suo “brand” un sacco di ragazzi. Mi chiedevo se da Backdoor cercate di coinvolgere i giovani, con degli eventi, dei mini live, delle promozioni…
Anche qui in parte ti ho già risposto. Abbiamo fatto suonare band (talvolta complete, i primi furono i Perturbazione), abbiamo avuto ospiti illustri (da Matt Dillon a Thurston Moore), facciamo spesso merenda commentando le ultime uscite della Captured Tracks, elaboriamo continue playlist, organizziamo gite sociali per i live. Socialità piena. Lo dico con orgoglio, molti miei clienti sono tra i miei amici più cari. Umanamente ricchi, divertenti, geniali. Dovresti conoscerli.
- In questo senso che opinione hai del Record Store Day? Moda o un appuntamento che potrebbe avere degli sviluppi, magari durante l’anno con più appuntamenti?
Credo che lo spirito sia stato in parte snaturato. Soprattutto per le limited edition pubblicate per l’occasione. Le trovi su Amazon o alla Fnac, non esattamente i tipici negozi di dischi da “preservare”. Lo spirito del Record Store Day secondo me da Backdoor, e nei negozi che gli assomigliano (dall’inarrivabile Amoeba di San Francisco a Hellnation di Roma), si respira ogni giorno. È non è retorica gratuita, ma uno dei motivi della loro perseveranza.
- Una grande differenza che ho notato con l’Inghilterra, è che in Italia il negozio di dischi indipendente è come il farmacista sotto casa: un luogo di ritrovo, con persone a cui si chiedono consigli, con un’atmosfera più familiare. Da Backdoor funziona così? Quanto è importante il rapporto di fiducia, lo scarto che c’è con un qualsiasi HMV, non solo in termini di competenza della persona che hai di fronte, ma anche del rapporto umano che si instaura?
Anche qui ti ho già risposto. Ma il vado a farmi due chiacchiere e mi prendo un 7” della Creation (magari…) vale sempre. Nonostante la grandissima offerta e la mole enorme di informazioni, qualcuno che sappia guidarti e consigliarti, serve sempre. Come si suol dire, “siamo qui per questo”.
- Graham Jones, l’autore di Last shop standing, alla fine del dvd si dichiara fiducioso rispetto al futuro dei negozi indipendenti che sono rimasti, perché sono quelli più fichi, che hanno lavorato meglio e che daranno inizio a un nuovo corso dei negozi di dischi. Volendo tirare le somme, tu come la vedi?
Direi che i giochi sono fatti, chi è in piedi andrà avanti. Io non mi lamento e cerco di spassarmela. Quando viaggio vado sempre (e compro) nei negozi di dischi, se non ci devo andare per lavoro giornalistico, non chiedo accrediti ai live, compro almeno quattro riviste al mese e aspetto il prossimo disco dei Fall (voglio vedere se mollo io o Mark E. Smith). Insomma, caldeggio un approccio equo e solidale (i Fugazi come il caffè guatemalteco) alla faccenda. La musica ci dà tanto? Bè, almeno in parte ricompensiamola allora.
- Qual è la tua idea di negozio di dischi indipendente ideale? C’è qualcosa in tal senso che cambieresti di Backdoor? Il coraggio premia, secondo te, in questo settore?
A costo di sembrare immodesto: il mio. Ma proprio perché cerchiamo, nei limiti del praticabile, di renderlo il migliore possibile. Cazzo, ci stiamo tutto il giorno. Se no tanto valeva fare l’avvocato. Cosa cambierei di Backdoor? Il cesso, ha sempre qualche guaio e spesso sembra un retro copertina dei Cramps. La grata davanti alla porta dove mi cascano sempre le chiavi e finiscono nella cantina della vicina tra i ratti e le bottiglie vuote. E i due dischi di Allevi che in un momento di follia ho ordinato in vinile. Invendibili.