Di solito vado a correre davanti a casa. Qui nel mio asettico paradiso terrestre, a Houston, Texas. Un anello da un miglio che circonda il parco con il campo da tennis e da beach volley e lo spazio recintato per i cani, davanti a casa. Tutto ovviamente sempre, inesorabilmente al suo posto, niente cartacce buttate a terra, nessun rumore molesto, la solita quiete artificiale di un paradiso terrestre del Nuovo Mondo. Gli incontri più bizzarri che puoi fare lungo i quattro giri con cui normalmente mi convinco di aver fatto sufficiente esercizio fisico, sono vecchie signore che passeggiano in tuta con la stessa convinta intensità con cui affronterebbero una maratona. Perché per gli americani il jogging, come la cucina macrobiotica, è un’esperienza da affrontare con dedizione sacrale, zero dubbi e un unico chiaro obiettivo in testa. Bruciare calorie e perdere peso, senza chiedersi troppo se il processo per arrivarci debba anche essere un minimo piacevole. Se no, tanto vale fare come una mia vicina che, per compiere i cento metri che dividono la sua villetta dalla cassetta della posta, si mette al volante della sua Mercedes e guida per quei cinque secondi che le servono a coprire l’apparentemente importante distanza. O bruci calorie in modo rigoroso o inizi a lavorare per diventare uno di quei personaggi grassi e incapaci di camminare che popolavano il cartone animato Wall E. Io più prosaicamente corro, sbuffo e sudo. E ascolto musica. Di tutto. Ho provato 45:33, il pezzo di LCD Soundsystem commissionato dalla Nike proprio per il jogging, accorgendomi che già avvicinarsi al quarantesimo minuto non era poi così ovvio. Ho provato con la techno, da Terrence Dixon alla Basic Channel, illudendomi che i bpm potessero dettare il ritmo della mia corsa. Ho deviato su Rashad Becker o Carlos Giffoni quando mi rendevo conto che le anse dolci del pop finivano solo per impigrirmi e lasciarmi il latte alle ginocchia. Qualche giorno fa ho messo in cuffia Extended Plays dei Cheathas, collezione di numeri di shoegaze melodico che si abbevera alla sacra fonte degli indipendenti anni ’90 americani, passato praticamente inosservato nelle classifiche di fine anno 2013. Ascoltando i Cheatahs in cuffia mentre corro e ansimo al buio della sera, mi é venuta, forse favorita anche dall’iperventilazione, un’improvvisa illuminazione. Questa é musica che fa proprio dell’essere nel territorio di mezzo e della sua non definizione, la sua forza. Con la melodia che spinge per prendere il primo piano, rompendo il muro delle chitarre, sulla traiettoria che partiva dagli Husker Du (quelli di Grant Hart) e arrivava a Lemonheads e Dinosaur Jr. Mentre cerco con lo sguardo l’orizzonte, sperando che arrivi prima che il mio fiato si esaurisca, penso che le secche del territorio di mezzo non abbia più voglia di attraversarle nessuno, perché alla fine, nell’epoca dorata del “tutti hanno una voce” si “riesce” solo se si decide di essere perfettamente ben definiti. A ognuno la sua pillola. Se ti piacciono i motherfucker fighi e luccicanti, ti tocca Kanye West, se preferisci il sofisti-pop veleggia verso Beyoncè o Justin Timberlake. E tutti gli epigoni cercano di infilarsi in fretta e furia un vestito che imiti pedissequamente gli originali. Mentre i ribelli preferiscono rimanere fuori dal giro, dichiarandolo con suoni rubati all’agricoltura (scorregge, sifule o rumori vari) e dichiarazioni trionfali sul proprio sperimentalismo e non allineamento. Nessuno più sta scientemente in mezzo, nella terra dove si rischia l’indifferenza perche quello che fai non é pret-a-porter inscatolabile con una definizione veloce. E infatti quando ascoltiamo un disco come quello di HisClancyness ci sentiamo sollevati. Nell’era del consumo drogato di novità, bisogna sempre inventare per forza qualcosa o creare una nuova scena con cui creare spirito di identificazione. Tutto subito, senza la pazienza di far lievitare il senso delle canzoni, la costruzione dell’immaginario. Il terreno della non definizione non lo attraversa più nessuno e infatti post noise, emo chitarrosa e affini non interessano praticamente più. Bisogna tornare a imparare a perdere senza per questo esserne fieri, mi sussurro da solo mentre evito un cane e il suo padrone e provo a riconcentrarmi sull’ultimo ritornello che spunta dal mare delle chitarre dei Cheatahs. Ascolto con immenso piacere quel rumore melodico che i Cheatahs rimettono in scena con la coscienza di chi sa che non ha più nulla da perdere. Mentre sono all’ultima curva, e mi chiedo se essere semplicemente giovani, carini, disoccupati o Belli in Rosa fosse solo alla fine l’anticamera di una mezza età anonima e auto compiaciuta, senza letteratura, senza infamia ma soprattutto senza Gloria. Corro e sbuffo, sapendo che rimarrò senza risposta. Hanno cambiato le regole per rientrare nel Breakfast Club e probabilmente non ho ricevuto il memo. D’ora in poi, mi dedicherò allegramente al Cardiocombo, vero annientatore di calorie, perso in un mare di adrenalinici adoratori del work out, tutti superlativa convinzione e tute coloratissime. Ke$ha e i suoi umidi strilli adolescenti bombarderanno il mio cervello a tutto volume e un futuro scintillante sarà lì ad aspettarmi oltre il mio sudore tecnologico.
(Il Direttore/Gennaio 2014)