Il mondo Backdoor. Contributi sparsi tra playlist,
meraviglie annidate tra la polvere e follie condivise.
Tutto in Via Pinelli 45, Torino.
Satisfaction guaranteed: Pinelli Park
Scoppia il “problema delle vacanze”.
Si faranno? Come? In spiaggia dentro a quelle specie di gabbie in plexiglass che ho visto proporre ieri?
Ognuno sogni o giudichi come crede. Legittima speranza o folle ossessione. A voi.
Backdoor, comunque, gioca d’anticipo e vi porta tutti al mare. Anzi, con precisione al mare negli anni 80. Perché? Bè, perché seppur tanto vituperato e coperto di accuse (quella tipica: “il decennio del disimpegno”, abitualmente proferito da gente che non ho mai visto impegnarsi nemmeno per i diritti dei propri figli) quello era un periodo in cui si viveva bene. Sarebbe arrivato il conto dopo? Mah, può darsi, però di sicuro mediamente eravamo allegri e, aiuto!, ottimisti. Quindi direi che di guai concreti, cinismo free for all, haters e bollettini che assicurano merda in arrivo, ne abbiamo a sufficienza. E allora “si va lì” e basta.
Gita sociale, dissidenti astenersi. Abbigliamento marino. Infradito ammesse, vale tutto. Liberi.
Partenza. Francia. Il video, prego.
https://www.youtube.com/watch?v=CstPu4ZSmvE
-il tipo coi baffi e i computer di quello in ufficio. Il desiderio incontenibile di andare in ferie (evidenziato dalla macchina portata all’autolavaggio posta in apertura. Segnale da dopoguerra tipico: macchina pulita, sono pronto, partiamo).
-sempre il tipo con i baffi e il fatto che indossi calze di spugna bianca e accappatoio, anche quando è sulla tazza (quella tazza).
-il servizio da tè in peltro degno di mia zia Olga abbandonato sulla battigia, simbolo di benessere e correlato disinteresse autorizzato dal lusso.
-la barca a vela, icona 80′s assoluta già duranduraniana. Tutti tifavamo per Azzurra, tutti.
-l’eleganza erotico borghese francese irrinunciabile issata a gonfalone dallo smoking bianco e dal continuo riempirsi di flute di champagne.
-ancora il tipo con i baffi, di bianco vestito in spiaggia, ma sempre con i calzettoni bianchi da “ora di ginnastica” in bella evidenza.
-l’improvvisa comparsa di un aliante (o bimotore?) sulla spiaggia, atteso con la stessa noncuranza con cui si saliva sul 72 sbarrato in Piazza Villari e utilizzato unicamente per arrivare in tempo e poter gustare su un tavolino lambito dalle onde (il servizio di peltro, nel frattempo, affoga) un cocktail stracolmo di frutta e colori da evidenziatori da cartoleria.
-il proto rap con evidente giro funk disco alla “Che idea” di Pino D’Angiò ancorato sotto.
-per un pubblico strettamente maschile: la protagonista, soprattutto nella panoramica a costume intero. Grazie.
-ancora e ancora il tipo con i baffi, che compare sul finale piazzato con cappello bianco visierato e orecchino (alla sua sinistra la new entry di uno con eleganza da gargagnano marsigliese e pettinatura da Internazionali d’Italia, tribuna centrale). Tutti ridono, nessun problema all’orizzonte.
Arrivo: Formentera. Il video, prego.
https://www.youtube.com/watch?v=-yXVufG5oV0
-il riff di chitarra di Chris Rea, simbolo imperiale del suono di Ibiza a venire. Classe e rilassatezza.
-la solitudine totale in spiaggia. Chimera assoluta in tempi di distanziamento sociale.
-per un pubblico strettamente maschile: la protagonista, soprattutto nella panoramica della doccia di schiena. Grazie.
-gli ammiccamenti in zona falò. Promessa di petting, here we go!
-il gabbiano. Fugace, ma atteso.
-la scena ricolma di metafisica pura, della palla rossa che cade sugli scalini bianchi, immersa nella luce d’agosto.
-i colori, nettissimi. E il calore, percepito.
Bene, speriamo abbiate gradito. E goduto.
Che, come diceva il Poeta “chi vuol esser lieto Chris Rea, che del doman non v’è certezza”.
E alè.
Backdoor riaprirà, si spera presto, e i vinili torneranno a girare
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Riuscite a dormire regolarmente?
Beati voi.
Sarà lo scarso movimento, forse il mondo che va in pezzi fuori dalla finestra, ma riposare serenamente è ormai una chimera.
Sveglie improvvise con gli occhi a palla (perché? cos’è successo?), incubi (ve li risparmio), ansia avviluppata al collo come una comoda sciarpa a scacchi. Insomma uno si trova in piedi, nel buio più totale in mezzo a casa sua, alle 4,37 di notte, e pensa una sola cosa, nitida e agghiacciante.
Cristo, è successo, sono ufficialmente diventato come quel tipo della pubblicità. Il piscione dai tratti nordici che si sveglia sempre nella notte con le scuse più assurde rivolte alla moglie. Ho sentito un rumore…La televisione era rimasta accesa… (e dillo che vai a orinare e falla finita una buona volta, checcazzo).
Comunque sei lì, dritto come un pioppo nel nulla immobile del tuo salotto. E allora? Leggi, ascolti qualcosa, pensi. Poi stramazzi verso le 7 e un’ora dopo tutto si mette in moto, ti alzi di nuovo e sei ridotto a una merda (calpestata) (da delle Timberland con il carrarmato come suola) (calzate da Cannavacciuolo). Dici “vabbè, almeno sono talmente stanco che mi trascino fino a sera e verso le 10 svengo nel letto e dormo come un orsetto di peluche”. E invece, implacabilmente, accade sempre il contrario.
Ci sarà qualcosa che condiziona il tutto?
Una notte ho sognato che ero accasciato su una sedia nel mezzo esatto di Piazza San Carlo, a Torino. Tentavo di dormire, disperatamente (grazie al cielo non indossavo ciabatte, ho controllato), ma a turni organizzati e precisi, degli sconosciuti si avvicinavano e mi scrollavano, impedendomi il sonno.
Tentare di dormire in sogno mentre non si riesce a dormire nella realtà mi pare una buona sfida interpretativa anche per Freud.
Come poteva esser successo? Il mattino dopo avevo la sveglia puntata alle 4,30 (spedizioni in negozio). Quello il motivo? Ansia da drin!!? Probabile.
Ma pochi giorni fa è andata peggio. Il sogno era questo: stavo pescando in un laghetto meraviglioso, tipo quelli americani, costellati di conifere. Calzavo in testa il mio cappello da caccia alle anatre ed ero rilassato. Silenzio, solo un po’ di vento e il leggero movimento dell’acqua. Poi all’improvviso, sulla mia barchetta, si materializzava Lucia Annunziata e scatenava uno stormire di uccelli, urla di grizzly, petardi. Mi rivolgeva domande intime e incalzanti, non attendeva nemmeno le mie risposte. Io cercavo di buttarmi nel lago, ma le acque erano piene di anguille enormi. E tutte, ma dico tutte, avevano il volto di Ignazio de Il Volo.
Mi sono svegliato urlando.
Perché una condanna simile? Me lo meritavo, forse?
Ho cercato motivazioni e indizi. Tutto quello che ho messo in piedi, come esile spiegazione, era che avevo visto dopo il telegiornale una promozione di un concerto de Il Volo in televisione. Quindi è quello che immagazzino, diciamo dalle otto di sera in poi, a condizionare i miei deliri? Non lo so, ma ora faccio attenzione.
Mi concentro e ascolto solo dream pop prima di raggiungere le coperte.
Già il nome dovrebbe aiutare, ma ovviamente ho sempre amato Beach House, Mazzy Star, M83, Chameleons, Galaxie 500 e, soprattutto i Cocteau Twins. Meravigliosi, adorabili. Una delle band migliori di tutti i tempi. Mi ripasso per la duecentesima volta la loro discografia e spero di crollare leggero dentro una delle loro canzoni. Almeno fino al mattino. Chissà.
https://www.youtube.com/watch?v=4Jvd6FxqYzE
questo Antivirus, dream, sciocco e pop, proprio per questo, è dedicato alla memoria di Mirko dei Camillas, cancellato ieri dalle nostre vite per colpa del Coronavirus. Aveva 46 anni. Ascoltate i suoi dischi, ricordatelo e sorridete.
Mirko lo sapeva, se hai fatto ridere qualcuno una volta, ti toccherà farlo per sempre. Addio, amico.
https://www.youtube.com/watch?v=5wSpwtBDGRI
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La prima volta che andai negli U.S.A., nei primi anni novanta, entrammo in contatto con la comunità italo-americana del Connecticut.
Tutti furono molto gentili con noi, qualcuno ci ospitò in casa sua, altri ci invitarono a mangiare gli scampi in un piccolo ristorante del New England, una coppia ci portò a sue spese ad Atlantic City. Avevano tutti un’immagine da dopoguerra dell’Italia, ma erano curiosi e si erano sinceramente affezionati a noi in pochissimo tempo.
Un giorno ci dissero che il decano della comunità italo-americana locale desiderava conoscerci.
Ci vestimmo al meglio delle nostre possibilità e aspettammo su un prato verde scintillante di una di quelle bellissime e placide case che passassero a prenderci in macchina. La residenza dove eravamo attesi era bianca e solenne e il proprietario vestito come un gentiluomo italiano di cinquant’anni prima. Abito elegante marrone, gilet e cappello. Era molto, molto anziano e magrissimo. Seduto dietro una scrivania, ci fece accomodare e volle sapere tutto di noi. Si esprimeva come un personaggio di Scorsese, in un misto di inglese e dialetto d’origine. I suoi gesti erano lenti, consci di poterselo permettere. Anche lui si dimostrò molto gentile e, prima di congedarci, con gli occhi piccoli e scintillanti, ci annunciò che avrebbe preparato lui stesso, e in nostro onore, un vero cappuccino italiano.
Ci accomodammo in una cucina soleggiata e gigantesca, dove troneggiava una macchina Faema professionale da bar, che lui aveva fatto arrivare appositamente dall’Italia. Armeggiò per un po’ e con evidente fatica, ma poi ci servì due cappuccini fumanti su un tavolo bianco immacolato. Ci disse “I like them very very much dolce” e quindi scoccò un bacio.
I cappuccini erano, in pratica, gelato allo zucchero con una spruzzatina di cacao. Densità estrema, glicemia oltre l’immaginabile. Un diabetico avrebbe salutato i parenti dopo il primo cucchiaino. Noi lo bevemmo (masticammo, direi meglio) tutto e ringraziammo con ampi gesti, confortandolo che “un cappuccino così buono, non lo avevamo mai gustato nemmeno in Italia”. Lui fu felice e, poco più tardi, ci salutò con la mano davanti al portone d’ingresso fino a quando non sparimmo dalla sua visuale.
Un pomeriggio del 2002, credo, stavo camminando in una via centrale della mia città e all’improvviso sentii un’improvvisa sensazione di leggerezza. Tutto subito non capii che cosa fosse, ma poi mi fu ben chiaro che, alla fine, ero riuscito a digerire il cappuccino di quell’uomo.
Che credo sia ancora vivo e abbia almeno 139 anni.
Il suo nome era Joe Pasquino.
E allora? direte voi.
Niente, è che dopo Pasqua e Pasquetta, volevo fare anche Pasquino.
E per oggi, è tutto.
https://www.youtube.com/watch?v=XAS2m-1pgt0
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E allora, tanti auguri di un’allegra Pasquetta. Antivirus / don’t stop.
Lo so, vi manca una bella gita fuori porta con annesso pic nic.
Quindi, per tamponare a dovere questo legittimo desiderio, gustatevi subito la canzone del giorno.
Immagino che la stragrande maggioranza di Voi la conosca a menadito, ma non sottraetevi al piacere di guardare TUTTO il video
eccolo
https://www.youtube.com/watch?v=V6khzqZfix0
Bene, se l’avete visto, come mi auguro, potremmo anche salutarci qui.
Ma invece, in ossequio al Servizio Sociale espletato ieri, tornerei sui probabili vantaggi di una Pasquetta forzata.
Non siete in coda (se sì, e per il bagno, dovrebbe risolversi in fretta. Comunque bussate). In genere a Pasquetta ci si sveglia tardi perché la pesantezza dei pasti pasquali non è uno scherzo e, verso le 11 scatta l’idea brillante tipo “ma perché non facciamo una bella scappata a (inserire il nome di una località abitualmente scelta da tutti. Qui, di solito, è il Lago Maggiore)”. Dalle 11,45 alle 16 sarete in coda. Immobili, a bestemmiare il Creato che avete lodato ieri. Alle 16,02 vi troverete in una località a due ore dalla destinazione ambita e che non esiste nella realtà, costretti a mendicare un panino in un bar degno del Libano bombardato in cui vi verrà risposto “panini finiti, posso fare un toast”.
Non avete fatto il pic nic e, di conseguenza, non vi siete trovati in un assembramento di promiscuità umana che oggi rappresenta l’Anticristo Virologo. Cioè un’Area Attrezzata. E lì non avete litigato perché “Lei ha preso dalla griglia la mia salsiccia-Cazzo dice, quella era di mio zio Vincenzo”. E vostro figlio non ha stangato il pallone in faccia alla madre di uno a cui il mostro di Milwaukee gli fa una sega e che vi dirà “quello (indicando il bambino che è vostro figlio), quello lì è suo?”. Non avete bevuto la Sprite calda. Vi siete risparmiati un mash up inestricabile di Gue Pequeno, Queen e Luis “Funky” Marrero. Vostra zia non si è storta una caviglia in una buca (probabilità almeno 74 su 100, secondo i bookmaker). Nessuno vi ha offerto del limoncello “ma buono, fatto in casa” (credetemi, se è fatto in casa, non prendetelo mai. Mai). La forestale non vi ha ficcato 279 euro di multa perché eravate parcheggiati in terza fila, in curva, davanti a un ingresso di una casa dove riposava un cardinale (era l’unica risorsa immaginabile dopo 49 minuti di giri a vuoto). Dopo che avete mangiato poco meno di una derrata alimentare, e per giunta da sdraiati, nessuno vi ha detto una cosa come “mangia questo bel pezzo di finocchio, che ti aiuta a digerire”. Non avete indossato dei pantaloni della tuta. Dai. Insomma.
Dimenticavo, se foste andati all’estero o in una città d’arte (anche qui, ma quali sono le città alternative alle città d’arte? Le città di merda? E allora perché uno dovrebbe andarci in vacanza?) ora sareste in coda (ancora, ma di modalità diversa). Dove? Ovviamente davanti a un museo. Perché di pittura cubista destrutturata armena non è che siete del tutto appassionati, ma a Pasquetta vi assale un desiderio irrefrenabile. E quindi siete sotto il sole da tre ore, costretti ad ascoltare i discorsi di quelli che avete dietro. Che vi stanno sul culo, come gps del momento e metaforicamente. Spacciati.
Se soffrite di Allergia al polline, Vi rimando all’Antivirus di ieri. Grazie.
E anche per oggi, certo di averVi dato il sostegno che meritavate, “arrivederci e in gamba”.
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Allora, tanti auguri e buona Pasqua.
Io con la Pasqua non ho un grande feeling. Per dire l’anno scorso l’ho santificata in un ospedale francese con la prima colica renale di una serie di 32 in una settimana. Indimenticabile.
Un ameno ricordo di quando, da adolescente, rimanevo in città è invece questo (da MyTunes):
“Ne parlo con malcelata tranquillità solo perché ora siamo a distanza di calendario e quindi dietro relativa sicurezza. Farlo in quasi diretta sarebbe impossibile. Quelle sono ore terribili, l’uomo perde ogni contatto con se stesso e con la sua pur flebile ragion d’essere su questo pianeta. Si smarrisce, rischia l’evaporazione. Il concetto stesso di tempo subisce un rallentamento tale da avvicinarlo alla paralisi. I pensieri si arenano, i movimenti incontrano ostacoli definitivi. L’afasia civile diventa realtà, muore tutto e vivi solo tu. Sono i giorni della Pasqua in città. L’apoteosi del nulla, l’urbano antropizzato che si sgretola. Non succede alcunché, la temperatura si eleva e i rumori escono netti dal loro nascondiglio abituale. Steso sul letto avverti con precisione ad altissima fedeltà la frenata dell’autobus, le posate abbandonate sul tavolo di dirimpettai lontani chilometri (“Sono le 11,30 facciamo che mangiare? Tanto…”), il tovagliolo del bar incastrato nel selciato divelto che aspetta vanamente un refolo di vento per tentare una fuga. Niente, non succede niente. Il resto del mondo è in coda verso località dove piove e tu sei immobile e disperato, pensionato senza la pensione. È Pasqua. Nulla da fare, aiuto, vi prego. Staticità assassina”.
Bene. Credo di averVi rallegrato a dovere, ma Vi inviterei comunque a riflettere sui vantaggi di una Pasqua Forzata.
Forse nessuno vi ha portato l’uovo di cioccolato con sorpresa e quindi per quest’anno vi risparmiate il simpatico portachiavi che SEMPRE vi aspettava nelle budella fondenti (nel senso cacao del termine) che lo contenevano. Potrete fare a meno della sorpresa meno sorpresa immaginabile.
Avrete la possibilità di dire a chiunque vi contatti “Eh, quest’anno Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi mica tanto! Siamo qui in famiglia…” e alè avanti su questa solfa-
Forse nessuno vi avrà portato la Colomba e quindi potrete esimervi dal macabro rituale dell’unica fava celata in un’unica fetta. Abitualmente si dà una bella mascellata e crackette, un rumore agghiacciante segnalerà che vi siete spezzati un molare. “Ah, l’hai trovata tu! Porta fortuna, lo sai?!”. Eeeh, un bel culo davvero, soprattutto per il vostro odontoiatra di fiducia.
Se soffrite di allergia al polline, potrete finalmente evitare l’asfissia in un maledetto prato soleggiato di campagna, dove tutti ridono e si divertono e voi avete gli occhi di un bue con un razzo nel deretano e l’epiglottide che si sta chiudendo ermeticamente. Ovviamente è il mio caso, ho passato pasque in cui la mia vita è stata appesa a un filo (di graminacee, urticacee, ecc ecc). Un anno i miei genitori mi caricarono semi rigido sul sedile posteriore e scapparono dalla montagna come dei ricercati dalla Digos. A qualche chilometro dalla città, quando lo smog era indicabile con un dito, ripresi conoscenza e respirai con una certa regolarità.
Vi siete scampati il ristorante, abitualmente uno che conosce un parente che detestate, a lato tangenziale, con un tasso di nervosismo da hit parade tra i camerieri, un inquinamento acustico da live dei Wolf Eyes e l’agnello che sa di Rat Mousquet. Quel genere di posti dove il parcheggio è sempre la cosa migliore.
Quindi mettete tutto insieme e non abbattetevi troppo. Poteva andare peggio.
per una Pasqua cittadina, ma briosa
https://www.youtube.com/watch?v=F1FFOMshiO0
per una Pasqua (ovunque) malinconica
https://www.youtube.com/watch?v=WH8KCo8IG5A
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Colonna portante backdooriana, Gran Visir delle regalie texane ai party natalizi, pregiata firma di Rumore, frequentatore abituale di questo sito (aka Il Direttore): non potevamo non invitare Mauro Fenoglio, ormai a Houston, in Texas, da più di dieci anni, per sentire come sta e come vanno le cose laggiù, all’ombra del ciuffo di Trump.
Come stai?
Immerso nella mia nuova routine da vita sospesa. Non soffro troppo a stare in casa, per natura. La gestione texana che predilige gli spazi abitativi aiuta. Mio figlio, rientrato all’ultimo dall’Inghilterra, sta sperimentando nuovi limiti alla sua esistenza da hikikimori. Gli abbiamo regalato la soffitta come suo spazio personale. Lo vedo ogni due / tre giorni, incontrandoci attorno al tavolo una mezzora per i pasti. Poche parole, un mio poco convinto tentativo di riportarlo alla realtà e ai doveri e l’accordo sul film da vedere la sera. Il tono pallidamente verde del suo viso aumenta col tempo, ma non siamo preoccupati.
Sei a casa? Da quando?
Le misure locali sono entrate in vigore fra il 12 e il 16 marzo. Hanno iniziato chiudendo la scuola (e le speranze di mia figlia che si doveva diplomare quest’anno, per il ballo di fine anno e tutte quelle tradizioni di fine liceo tipiche degli USA. Ci ricorda ogni giorno nel suo italiano alla Sopranos, che “non potrà più rivivere quelle memories”. Hanno poi chiuso ristoranti e richiesto alla gente di non incontrarsi. Noi praticavamo prudenza già dal 9 Marzo, ma sono rimasto definitivamente in casa dal 18. Lavoro dalla mia camera da letto, collegato con il mondo, i colleghi, mentre mia figlia fa lezione in salotto e mio figlio è perso nei mattoni virtuali del mondo di Minecraft, collegato da una gaming consolle ai suoi amici, in soffitta. Mia moglie è l’unica a mantenere un simulacro di contatto fisico col mondo fuori.
Com’è la situazione a Houston?
In Texas i contagi salgono, ma meno che altrove. I numeri per la nostra città (Houston, la città che galleggia sulle autostrade) sono difficili da interpretare. Facciamo parte di una contea e Houston ha molte contee. Passi mezzora della tua giornata a fare le somme dei vari siti, prima di decidere, sconfitto, che “andrà tutto bene”, anche se alla fina non sai nulla. La fortuna del Texas è che la distanza sociale è normale socialità. Dettata dagli spazi immensi da percorrere da soli in auto, la mancanza di metropolitana, la naturale diffidenza dell’americano vero per qualsiasi atto o iniziativa che coinvolga il contatto (abbracci, pacche sulle spalle, conversazioni passionali). Una volta che Silvestro (il sindaco di Houston, Sylvester Turner) ha chiuso i luoghi pubblici e vietato gli incontri di gruppo, non è stato complicato portare la pratica naturale della distanza sociale al suo estremo. Possiamo ancora passeggiare tutti i giorni e noi lo facciamo, andando in giro per i viali alberati deserti del vicinato. Incontriamo ogni tanto qualcuno che si sente in dovere di salutare con cordialità ma anche sospetto. Passiamo davanti ai giardini privati di fronte alle case, schivando i fiotti d’acqua degli annaffiatoi automatici, dove la gente si siede a osservare placida la vita, con un bicchiere di vino in mano, i piedi scalzi (che sia inverno o estate i texani amano girare a piedi scalzi nel weekend) come fosse un’eterna attesa prima di essere chiamati per pranzo. In sostanza non è cambiato molto. Gli spazi hanno salvato ancora una volta questa gente inconsapevole, che oggi pensa di vivere in un’infinita domenica, profumo di carne grigliata in giardino e sedie pieghevoli incluse, a cui è stato solo tolta la possibilità di invitare qualcuno a casa. Gli amici passano con i loro SUV e camioncini e salutano con la mano dal finestrino calato. Un paio di settimane fa girava per il vicinato un drone che emetteva il suono della canzone di Buon Compleanno, perché il modo consigliato per sapere se ti sei lavato le mani per un tempo sufficiente, sarebbe quello di cantare due volte buon compleanno mentre t’insaponi. I Texani sono gente semplice e c’è sempre un semplice stratagemma per spiegare loro le cose. Una canzone, una filastrocca, Basta dare un’indicazione chiara e loro eseguono. Poche divagazioni, zero opzioni e necessità di arricchire il discorso con complesse costruzioni di frasi principali e subordinate.
Segui Trump in televisione?
Certo. Mi devo tenere aggiornato per le mie imitazioni. Parla ogni giorno alle 17,00. Se eliminasse “tremendous e “very very good job” dal suo vocabolario, credo che farebbe scena muta. Interpreto il mood del giorno, dalle facce che fa il povero Dott. Fauci (immunologo capo della Task Force della Casa Bianca), quando il presidente si lancia in una delle sue ardite interpretazioni dei dati. Fauci è l’anima dell’America che resiste. Al virus, ma soprattutto al suo presidente, alle fake news e all’estinzione del buon senso. L’altro personaggio interessante è Mike Pence, il vicepresidente, teoricamente messo a capo della Task Force da Trump. Pence praticamente non dice mai nulla che dia valore aggiunto, salvo fare dei bei complimenti a tutti. Anche vicino all’Apocalisse, un “good job” non si nega a nessuno. Una nazione talmente schiava del proprio ottimismo, dal non riuscire mai a fare i conti con la realtà, anche nei momenti più bui. Almeno, così sembra.
Che percezione c’è dell’Italia?
Per i Texani l’Italia è sempre stata una cartolina. È una linea retta che unisce Rome a Florence fino a Venice con una “aahhhhhh” finale e mani che si muovono a mimare soddisfazione. In realtà Fauci osserva saggiamente i dati italiani per poter prevedere cosa succederà qui. So che è in contatto con molti virologi e ricercatori italiani, e questo è un bene.
Come passi il tuo tempo?
Lavoro, per lo più la mattina. Disteso sul letto, in pigiama. Non ho mai passato così tanto tempo disteso sul letto e col pigiama addosso. Mi sento in una perenne conferenza stampa di John Lennon e Yoko Ono nel loro appartamento nella Dakota Suite. Il pomeriggio ascolto musica e prendo telefonate residue. Trovo spunti per lamentarmi di qualcosa in casa, ma nessuno mi dà più retta. Poi verso le cinque del pomeriggio mi dedico gli agognati 10,000 passi attorno al vicinato con mia moglie. Non riesco più a leggere un libro, almeno finora. Non so perché. La sera, dopo cena, un film. Con mio figlio, ci siamo immersi delle saghe cinematografiche. Abbiamo iniziato con “Rocky”, che mi commuove sempre. L’ultimo è un perfetto esempio di terminalità cinematografica urbana. L’ho detto a mio figlio e lui ha fatto finta di capire, segretamente compatendomi.
È il momento dei consigli. Avanti.
Cose nuove, cose vecchie. Per un tempo sospeso, va tutto bene
“Joe’s Garage” di Frank Zappa
una saga urbana che fa la linguaccia agli Steely Dan e impartisce lezioni di cialtroneria brillante ad Ariel Pink ed Elio e Le Storie Tese che ho riscoperto da poco
“Heaven to A Torture Mind” di Yves Tumor
un disco di blues urbano modernissimo che è anche l’ultimo concerto che ho visto.
Concerto sudato e torrido prima della Quarantena.
Le carezze:
Qualsiasi cosa abbia scritto e cantato Paddy McAloon (Prefab Sprout) per non dimenticare che il mondo può ancora essere un bel posto in cui la compassione e la comprensione degli altri vince sul sospetto.
”Been Around” di A Girl Called Eddy
il potere salvifico del pop quando tutto sembra perduto
E poi, necessariamente tutta l’opera di Leyland Kirby aka The Caretaker che dice da dove veniamo, dove stiamo andando e come finirà tutto
Film:
La Saga Del Pianeta Delle Scimmie (Rise, Dawn e War). L’abbiamo vista tutti assieme e c’è un po’ di tutto quanto stiamo vivendo. Mia figlia ha detto che potremmo considerare di prendere una scimmia come “pet”. Nessuno ha sentito l’esigenza di rispondere.
“Sausage Party”, per compensare. Un cartone animato demenziale. Trionfo di doppi sensi. Molto texano.
Libri:
“La Trilogia di Holt” di Kent Haruf. Un libro che conforta e ti fa respirare l’aria dell’immensità delle pianure americane
“Realismo Capitalista” di Mark Fisher. Per prepararci alla ripartenza, senza dimenticare quello che non andava già prima.
“Nuova Era Oscura” di James Bridle. Internet, apocalisse, insomma, nel caso non ne abbiate avuto ancora abbastanza. Testo fondamentale.
Tutto bene con le bestie?
Come abbiamo imparato dopo ogni uragano, basta poco perché gli animali riprendano il controllo della città. A noi, da sempre, fa compagnia un opossum (poco più di un topastro, che molti messicani mangiano) che corre lungo la staccionata del nostro giardino la sera e si ferma per 30 secondi a guardarmi. Quasi un monito. Mia moglie, sfogliando il libro di ricette (per dare creatività alle nostre giornate sempre uguali), si è vista correre addosso uno scarafaggio che si era rifugiato fra le pagine. Sono tutti piccoli segnali, terremoti alla calma sospesa. Presto attendo di vedere un alligatore che mi osservi oltre l’uscio di casa. Non oso pensare chi troveremo, quando riapriremo il cantiere a Corpus Christi, dove lavoro. Confido che il destino abbia aiutato il bobcat (lince rossa, nda ) che si aggirava fra tubi, sili e apparecchiature. Era già molto smagrito e non so cosa trovi ancora da mangiare, soprattutto adesso che siamo tutti a casa. Mi piace pensare che lo rivedrò. Sarebbe un bel segnale di ritorno alla normalità.
https://www.youtube.com/watch?v=FwRkhOCW9HQ
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Qui le cose sembrano andare per le lunghe e allora è bene che vi porti di nuovo in gita sociale. Usciamo.
Abbigliamento libero, anzi. Nessun vincolo. Strada.
Destinazione Los Angeles, ma partenza da Bristol.
Ok, ci siete: Massive Attack “Unfinished Sympathy”.
Una ripresa sola, girata con Steadycam, dal 1311 di South New Hampshire Avenue al 2632 di West Pico Boulevard, LA.
Shara Nelson cammina, baciata dalla golden hour californiana. Intorno a lei attori e gente normale, più o meno consapevole delle riprese. La gang, all’inizio, è vera, se state attenti riconoscete anche i Massive Attack tra bikers, disabili e ubriachi. Il regista è Baillie Walsh, ma è Dan Kneece a girare con la Steadycam, fino a quando la stanchezza non lo piega e chiede di smettere.
Perché “Unfinished Sympathy” è il groove eterno, potenzialmente senza approdi. Sorretto da una “beissline” (qualcuno sa perchè) mastodontica, sulla quale salgono a piacimento pianoforte, le frasi definitive cantate da Shara Nelson, gli “hey, hey hey, hey” campionati dalla Mahavishnu Orchestra, i tagli hip hop. E un’orchestra vera, che tutti i Massive Attack vollero talmente tanto da dover vendere la proprio macchina per star dentro i costi.
Shara Nelson cammina come se avesse una missione da compiere. Intorno a lei poca bellezza, soltanto l’aspra normalità urbana. Forse rimpiangiamo anche quella, tutto è assenza quando viene negato.
Era il 1991, c’era la Guerra del Golfo. Un altro mondo. Riascoltando questo capolavoro sembra lontanissimo. Tutto lo è.
“Come un’anima senza mente In un corpo senza cuore Mi manca ogni parte …”
Shara Nelson gira l’angolo e scompare
hey, hey hey, hey
https://www.youtube.com/watch?v=ZWmrfgj0MZI
intanto ieri mattina..
fotoromanzo dark delle spedizioni Backdoor parte 2
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Un amico ha lanciato una di quelle sfide che ci distraggono in questi giorni: stilare una lista di film in tema con quello che stiamo vivendo. Cinematografia survivalista. Tra i titoli suggeriti da chi ha partecipato c’era anche “Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders. Non ho un buon rapporto con Wenders, devo ammettere che, sostanzialmente, non lo capisco quasi mai. Gli esordi rappresentano per me un mistero assoluto, ma mi sono ostinato a vedere sempre i suoi film, con risultati alterni e dubbi irrisolti. Ma “Fino alla fine del mondo”, in effetti, oggi acquista un valore differente.
Il mondo è davvero finito? No, ma quasi.
In sostanza è terminato il mondo al quale facciamo riferimento, un insieme di produzioni culturali che ci nutrono e definiscono. Le “novità” musicali, cinematografiche e letterarie sono assenti, in pausa. Un vuoto d’aria che fa sobbalzare le nostre abitudini. Ci spaventa anche? Non direi. Perché siamo abitualmente in ritardo, abbiamo capitelli corinzi di libri impilati che attendono il nostro tempo libero, quintali di cinematografie da recuperare, acquisti ancora incellofanati di band meravigliose confinate al silenzio.
Il quesito sottile che forse avete cullato anche voi è stato “Ok, per me va bene così. Mi basta quello che c’è”. Una tentazione senile (a 20 anni non ti è sufficiente un bel niente), dettata da un desiderio di controllo, dalla paura di essersi persi qualcosa, un riverbero estremo della tanto celebrata “Retromania” che colpisce tutti. Dobbiamo fare i conti con quello che abbiamo, ma è già moltissimo, quindi niente più novità, grazie. Desideriamo cose, ma tra quelle prodotte finora. C’è tanta bellezza che rischiamo di lasciarci dietro.
Mostruoso, a pensarci. Seducente e tranquillizzante, a pensarci ancora.
A incrociare questi dubbi sono arrivati un paio di messaggi da altri amici, che mi informavano tristemente che era mancato Hal Willner, il grande produttore responsabile, tra gli altri, di magnifici tributi a Nino Rota, Mingus, Monk, alle musiche della Disney e a Kurt Weill. Se l’è portato via il Coronavirus, a 64 anni. Il suo ultimo tweet, alludendo a classifiche e desideri, diceva più o meno “Ho sempre voluto avere un Numero Uno, ma non questo” e allegava una mappa del contagio negli Stati Uniti. Confermava poi di essere a letto a New York, nell’Upper West Side. Ho pensato fosse un buon modo, ironico e amichevole, di salutare e andarsene, e mi sono anche ricordato che aveva curato proprio lui la colonna sonora di “Fino alla fine del mondo”. Quindi sono andato a cercarla nella mia discografia. Ma quando l’ho presa in mano ho realizzato che ricordavo male e che mi sbagliavo del tutto. Possibile? Ma come potevo essermi confuso? Non ho più il controllo del Mio mondo? Quindi basta? Va bene così? Possiamo fermarlo davvero per quanto mi riguarda? Abbiamo “già dato” fin troppo? Un pensiero utopico quanto indegno? Lo è. Perché sarebbe immondo pensare che il futuro non abbia più nulla da offrirci. Stupore, magnificenza, insolito. Sfruttiamo questa pausa, ma nel frattempo alleniamo il gusto e la curiosità. Attendere valorizzerà la ricompensa.
In ogni caso ora sei davvero “Perso nelle stelle”. Quindi, So long, Hal.
https://www.youtube.com/watch?v=NXItZTgWGes
Backdoor riaprirà, si spera presto, e i vinili torneranno a girare
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Mi pare evidente che, se qualcuno ce le farà avere non al prezzo di un brasato al dolcetto, dovremmo abituarci tutti quanti alle mascherine.
Il che pone alcuni interrogativi.
Come vanno portate, non dico per essere sicuri, ma per dare un’immagine corretta di noi stessi?
Mi segnala un amico che il modo figo è appesa a un orecchio, stile cazzomenefrega. Con studiata noncuranza, buttata lì. Credo sia l’equivalente di chi mette i pass gettati sulla schiena (comunque visibili ma), in modalità “ah sì, sono accreditato al Festival, ma neanche me lo ricordavo, cazzomenefrega). Segnalo solo che potrebbe cascare facilmente, a meno che uno non abbia le orecchie del Dr.Spock, ma capisco. Forse in aiuto come paracadute interno potrebbe venire il colletto della polo, immagino alzato verso l’alto, dato il soggetto in questione. (Vasco periodo anni 90 di sottofondo).
In tasca (al massimo). Obiettore totale politico anarcoide extraparlamentar che fu, refrattario a qualsiasi imposizione. Alla sola ipotetica notizia dell’adozione dell’app con riconoscimento dati e malattia è impazzito, chiudendosi sotto il lavello con l’opera omnia di Michel Foucalt. (i Crass di sottofondo).
Applicata alla perfezione (con colla Bostik, probabilmente). Il ligio integralista. “Han detto che si fa così” e basta. Controlla senza sosta che aderisca perfettamente alla pelle del viso. La schiaccia continuamente. Senza dubbio è destinato a una perdita di respiro che lo condurrà a una morte similare a quella causata dal Virus da cui tenta di difendersi. Porta occhiali che si appannano inesorabilmente. Tende, com’era prevedibile, ad assumere mentre parla il leggendario e drammatico “accento svedese”. (indie pop inglese, insomma i miei dischi)
Autoprodotta. Di necessità, virtù. Ma anche vezzo bricolage riciclista. Coppe di reggiseno, sciarpaggi Tuareg, scaldacollo in pile urticante issati sulla bocca e fissati dietro con molletta, assorbenti ritagliati, pezzi di stoffa d’ogni sorta ricamati come fossero centrotavola barocchi. Vale tutto. (Reaggae terzomondista di sottofondo).
Affronto Carnevalesco. Situazionisti Cazzari & Spritosonen Of The World. Mascherina di Zorro, quella elegante da damina veneziana (esula però da questo contesto quella da Medico della Peste, con la canapia oblunga: appropriata e di gran classe storico citazionista), ogni sorta di maschera carnevalesca acquistata in cartoleria (tipo scimmia, Ronald Reagan, Hulk, Uomo Ragno, Carlo Conti…) (Elio e le Storie Tese di sottofondo)
questi direi, per sommi capi, gli scenari possibili. E non abbiamo ancora parlato dei guanti.
Comunque
https://www.youtube.com/watch?v=EHdYhG7UWoM
(non ho saputo resistere)
ma anche
https://www.youtube.com/watch?v=VaeUJjy87Ik
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Lo so, è l’Antivirus numero 30. Un mese. Sembra di più?
Per festeggiare abbiamo un ospite d’eccezione: Francesco Farabegoli.
Ho la fortuna di scrivere con lui su Rumore https://rumoremag.com/
Ho letto (e rileggo ogni tanto) il suo blog http://www.bastonate.com/
E vi invito nuovamente a iscrivervi alla sua Bastonate per Posta http://www.bastonate.com/
Mi piace quello che scrive, ma soprattutto come lo scrive. Ho imparato molto da lui e gli sono debitore, soprattutto perché a inizio quarantena mi ha mandato la ricetta per fare le piadine in casa. Riceverla da un romagnolo ha un che di sacrale.
Ci “sentiamo” abbastanza spesso, con il privilegio lessicale di dirci cose incomprensibili ai più.
Non abbiamo mai scritto nulla insieme, anche se direi che, forse inconsapevolmente, quando iniziamo a mollare gli ormeggi formali e sbrodoliamo concettualmente, tendiamo ad assomigliarci. O almeno così mi piace pensare.
Quindi questo è un esordio ed eccoci insieme, in un breve back to back.
Il back to back è una pratica diffusa nel mondo dj. Si suona contemporaneamente, un pezzo a testa.
È un sfida di stima.
Quindi, that’s Farabegoli & me
(parte lui)
IL DOPPIO MENTO
Lo specchio di casa ha un lato di umanità che spesso non siamo disposti a riconoscere. Lo specchio ci rimanda un’immagine approssimativa di noi stessi nella quale abbiamo imparato a riconoscerci e in una certa misura accettare -voglio dire, non è che ci sia una gran scelta. Non credo fossimo pronti al deformarsi dei nostri visi addosso alle immagini sgranate lo-def che siamo costretti a spargere in giro per il mondo in questa teoria di videoconferenze.
Certo, siamo entusiasti che si possa rimanere in contatto. Ho visto più spesso i miei compagni di bevute nell’ultimo mese di quanto li abbia potuti vedere negli ultimi tre anni. Parte la videoconferenza e la webcam mi inquadra impietosa, dal basso verso l’altro. La barba ispida segna due righe su un doppio mento improponibile, il naso storto scombina le proporzioni del viso come un quadro di Picasso, la luce dei LED sui vestiti comodi che usi quando sai di non dover uscire ti ritrae con una spietatezza che al confronto Dogma 95 sembrava James Cameron. La tecnologia è supposta unirci, ma in realtà al momento unisce più che altro i surrogati made in Taiwan di noi stessi.
IL RIPORTO
A parte una breve pausa, sono sempre andato dallo stesso parrucchiere. Negli anni fedele. Drammaticamente, i due proprietari hanno venduto qualche mese fa. La nuova proprietà ha diversi negozi, un brand, ma anche arredamento e velleità hipster barbute. Impaurito, ci sono andato comunque. Chi mi ha tagliato i capelli, evidentemente, “aveva delle idee”. Dopo anni di sforbiciate con la radio che trasmetteva Morandi e i New Trolls (quel concetto di “Radio Nostalgia” soverchiante l’umano) sono uscito da una mezz’ora di trap di classe con una specie di taglio post punk perpetrato da mani legate a un cervello ignaro di cosa il post punk fosse. In sostanza qualche rasata in più sui lati. Ma anche l’agghiacciante sensazione che mi avesse pettinato come uno che necessitava di un effetto riporto .Tutti i capelli spinti un po’ in là, a coprire. Ne avevo bisogno così tanto? (sono domande che ti mettono di fronte a risposte dolorose. Attendo con terrore questa specie di app per cui sapremo se stiamo incrociando un infetto. Una delle domande mi pare sia -Sei sovrappeso?-). Comunque poi le cose sono andate come sappiamo e io mi trovo una pettinatura scomposta con accenni di riporto. E mi domando se sia evidente nelle videoconferenze, se devo stare con il mento alto per dissimularlo, se la gente che mi guarda sospetti che io possegga anche un borsello anni 70 in pelle di ratto dove conservo sigarette e tagliaunghie. Il continuo mostrarsi attraverso i diafani collegamenti web è un esercizio di introspezione e realismo estetico al quale dovevano prepararci meglio e con un certo anticipo.
JO
Il vincitore morale del girone di andata di questo periodo forzato di quarantena è una popstar dimenticata di fine anni ottanta che si fa chiamare Jo Squillo. Qualche giorno fa ha iniziato a fare djset in diretta sul suo canale instagram. Diversamente dagli altri (numerosi) set di dj più o meno famosi e rispettati, il djset di Jo Squillo è inteso essere una ragionevole versione in scala di una serata a ballare nel più compromesso villaggio vacanze del bacino mediterraneo. Il set consiste in Jo Squillo che balla senza sosta e urla slogan di stampo anarcoinsurrezionalista -rivoluzione, celebrare la vita, movimento di liberazione, brilliamo e amenità simili. Davanti a lei una consolle a cui presta saltuariamente attenzione, come un dj vero e proprio. Dietro di lei un impianto luci casereccio, una mirrorball, due manichini che chiama per nome (Michelle e Valentina), drappi leopardati e altri ammennicoli a caso. Le prime volte che mi ci hanno invitato dentro erano dirette da un paio di centinaia di spettatori, ma nel giro di un paio di giorni si sono allargate al giro degli influencer di lusso e sono trasformati in bolge dantesche da decine di migliaia di viewers. Le persone commentano in diretta, ordinando una bottiglia di Dompe al tavolo VIP e si lamentano che le scarpe col tacco iniziano a far male ai piedi. Le selezioni sono variazioni sul tema di un Deejay Time trasfigurato al secondo grado, a cui ogni tanto piove addosso qualche goccia di presente (niente di lontanamente rispettabile, il che comunque è positivo, e se c’è bisogno di una pausa puoi silenziare un secondo e piazzare un pezzo degli Spokane senza far male a nessuno). Jo Squillo, a dispetto dei 57 anni sulla sua carta d’identità, è un effetto speciale vivente: molto più in forma di me, balla per un’ora senza dar manco l’idea di sudare. Il trucco non sbava di un filo e il suo girovita è davvero notevole. Dentro ai djset di Jo Squillo confluiscono così tanti elementi culturali a caso da farlo sembrare una monumentale opera di performance art interattiva la cui portata, completamente sfuggita di mano alla sua ideatrice, potrebbe essere uno dei momenti più iconici del presente. Oppure no, è una zona grigia. Non credo che la maggior parte dei partecipanti abbia la minima intenzione in principle di pagare 5 euro per essere presente ad una serata del genere, anche se d’altra parte non è irragionevole pensare a Jo come a una possibile superstar dj negli eventi mondani che seguiranno il cataclisma. Poetico, per certi versi. Per altri versi no.
ELIZABETH
Io sono uno che ha sinceramente apprezzato il discorso della Regina Elisabetta, sono quel tipo di fenomeno lì. Non provo interesse per la monarchia, non sono indebolito emotivamente dalla quarantena e, solo in parte, sono rimasto ipnotizzato dal verde Wimbledon al giorno d’apertura del suo abito. Però ho una passione per le persone che durano, impassibili (forse, chissà) ai vuoti che gli si aprono intorno. Soffro della Sindrome di Paul McCartney. Amo la fissità facciale ed emotiva di Elizabeth, il decoro alla Buster Keaton (e anche vagamente di mia nonna Vittorina), ma soprattutto, la scelta dei vocaboli, la potenza espressiva massima di quelle frasi dette con quell’accento. “A time of disruption”, per dire, non sarebbe un titolo magnifico per un album cruciale della Dischord fine anni 90? E “United and resolute then we will overcome it” non lo vedete già scritto sulla cover di una raccolta punk h/c (o beffardamente su un bootleg di Billy Bragg?). Ma il top emotivo l’ho raggiunto con “le doti di autodisciplina e tranquilla risolutezza condita di buon umore che ancora caratterizzano questo Paese”. L’Inghilterra è tutta lì e Lei, che non mette il regal naso fuori da non so quando, lo sa bene. Un esempio zen bonsai tra XTC e Bernard Shaw. La meraviglia di quell’“ancora”. E poi la chiusura con “We Will Meet Again”, la canzone di Vera Lynn che diede speranza a molti soldati al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale. Una chiara citazione collettiva da parte di Her Majesty, che chiama a raccolta Roger Waters di “The Wall” (“Qualcuno qui ricorda Vera Lynn?”), Byrds (la loro versione in chiusura dell’esordio “Mr.Tambourine Man”) e Johnny Cash (cover di chiusura di “American Recordings IV: The Man Comes Around”). Tutto evidente. E poi la finezza di citare in chiusura una canzone di guerra ribaltando la sequenza di “The Queen Is Dead” degli Smiths, dove il brano omonimo si apre con un campionamento di “Take Me Back To Dear Old Blighty”, vecchia canzone dell’esercito inglese. La consapevolezza assoluta. Elisabetta compirà tra poco 94 anni ed è da settimane in isolamento nelle sue stanze del castello di Windsor, con la sola compagnia del principe Filippo, di due paggi e della fidata cameriera.
The Queen is not dead, boys. And she isn’t so lonely on a limb
e quindi
https://www.youtube.com/watch?v=xvQAOu7k34o
ma anche
https://www.youtube.com/watch?v=sT0-OkIl0Dw
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