questo non è un Backdoor Antivirus 22: il blues da lockdown

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Una certa malinconia sconfinante nella pigrizia. La sensazione di non combinare nulla.

Sarà colpa della tristezza latente o dell’incertezza soverchiante?

La vera domanda, quindi, è: esiste un “blues da lockdown?”

Per quesiti esistenziali di un certo peso serve un esperto indiscutibile.

Così ci siamo rivolti a Thomas Guiducci, nostro bluesman di riferimento.

C’è una linea che unisce Howe Gelb e Johnny Cash alla Romagna?

Sì, ed è esattamente lì che Thomas sfreccia con la sua Moto Guzzi.

Allora, esiste il “blues da lockdown”? E magari puoi spiegarcelo con una tua canzone?

 

“Il blues da lockdown”

di Thomas Guiducci

thomas-1

 

Esiste il blues da lockdown?

Ovviamente si. Ma non è quello che ci si aspetterebbe.

Non è in 12 battute e non è nemmeno così triste.

È sospeso, direi.

È un limbo.

No, non quello in cui ci si ribalta all’indietro lacerandosi gli addominali  e cercando di passare danzando su ritmi improbabili  – ubriachi perlopiù – sotto un’asticella mai abbastanza alta (non intendevo fare battute ma lascio la libertà di pensar male).

Più un limbo dantesco.

Non hai peccato, ma sei escluso dalla salvezza. Che peccato.

Perché in fondo non stai così male, ma tutto ti sembra un po’ inutile. Ti ricordi tante cose frenetiche che facevi prima e sei felice di non farle più. Poi però anche tante cose sciocche e “normali” che ti mancano come l’aria.

Passeggiando in Barriera di Milano, il quartiere di Torino dove vivo attualmente, mentre evito cacche di cane (spero) grandi come noci di cocco, penso che l’unico momento di vera libertà è questa gimkana che mi porta alla pizzeria.

L’asporto come unica via per la libertà.

Suona un po’ lugubre.

Quantomeno distopico. Per fortuna una rissa sedata dal pizzaiolo che esce con un ciocco di legno in mano mi riporta alla realtà.

Un po’ come la scena del vecchio nella nebbia di Amarcord, esci, non vedi più nulla, perdi ogni riferimento, finché arriva il cocchiere che ti dice che sei davanti a casa. Non è un bel lavoro.

https://www.youtube.com/watch?v=oJJmMJlqt5A

Nel primo lockdown eravamo tutti uniti, contenti di salvare il mondo, suonavamo in vestaglia, urlavamo dai balconi (qui c’erano pure i fuochi d’artificio). Musica a tutto volume. Si passava dalla Tosca a Gigi D’Agostino passando per Albano e Romina (qualcuno azzardava una versione dance dell’inno d’Italia che si scontrava con musica araba random).

Ora la musica non c’è. Silenzio, gente che va al lavoro comunque. Allegria poca. Tutti in questo limbo alla ricerca della salvezza.

Forse è blues.

Se devo (devo?) pensare ad una mia canzone che fotografi il momento penso a Jericho Rose.

La Rosa di Gerico è una pianta che può vivere tantissimo tempo senza acqua, si finge morta, ma quando riceve finalmente acqua nuovamente torna a vivere come se nulla fosse.

Fingersi morti per ritrovarsi vivi. Che controsenso.

Speriamo funzioni.

 thomas

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questo non è un Backdoor Antivirus 21: take me out, tonight

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Come tutti, ho una gran voglia di tornare a una pur minima forma di socialità.

Di uscire e godere.

Ma sono anche preoccupato di farmi trovare all’appuntamento scoperto, senza difese.

E non parlo di quelle immunitarie, ma di quelle selettive, del buon senso che ti fa dire “grazie, ma no” a certe offerte inquietanti.

Non vorrei mai che l’astinenza da frequentazione mi inducesse a scelte avventate, a dir di sì senza riflettere.

Magari ti arriva una mail tipo “Ciao. Siamo Teresa e Guido, i figli di Vincenzo, il tuo bidello delle medie. Pensavamo di fare una spaghettata in un centro commerciale sulla statale che porta a Castellana In Cerchia con tutti gli alunni che lo hanno conosciuto. Ci sarà anche una competizione di karaoke reggaeton. Posteremo in diretta su Facebook l’intera serata. Puoi confermarci la tua presenza?”.

E tu, dopo settimane di ciabatte e Flavio Insinna, debole ed esposto a tutto, magari rispondi di getto “Ma certo! Con piacere. Posso portare anche mio cugino Giampiero? E’ previsto un dress code? Ci vediamo prima per un aperitivo nel parcheggio dell’Autogrill?”.

Insomma fottuto dall’entusiasmo, beffato dall’astinenza, sputtanato in eterno soltanto per poter indossare delle calzature degne di questo nome e varcare a grandi falcate i bastioni del pianerottolo.

Questo è il rischio. Pensateci bene.

Insomma

Take me out tonight
Because I want to see people
And I want to see life

(ma se c’è anche Noel Gallagher avvertite prima, che voglio farmi trovare pronto)

https://www.youtube.com/watch?v=C4IouDT4GTM

noel

Take me out tonight

Take me anywhere, I don’t care

I don’t care, I don’t care

(ma proprio anywhere no. Al karaoke di reggaeton, per dire, non ci vengo)

no-reggaeton

segnalo, per chi fosse interessato, una mia intervista per la trasmissione “Rumori” condotta da Francesco Piperis, ascoltabile  alle 21,00 questa sera accedendo qui: http://player.radioohm.it/ oppure da venerdì, in replica, accedendo alla sezione Riascolta di Rumori: http://riascolta.radioohm.it/trasmissione/rumori

 

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margall

 


questo non è un Backdoor Antivirus 20: albe bielorusse

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Dormiamo tutti meno.

Stiamo di più in casa, sport quasi azzerato, preoccupazioni assortite, metabolismo fuori controllo.

Qualsiasi sia il motivo, non capita soltanto a me di trovarmi all’improvviso con gli occhi spalancati nel letto.

Come stanotte -pum! – guardo la sveglia e sono le 04:02. Un numero che mi atterrisce.

Ma decido di alzarmi e andare a leggere qualcosa. Prendo l’ultimo numero di Rumore, quello con PJ Harvey in copertina (ottimo il servizio su di lei, a proposito) e mi tuffo in un articolo intitolato “Tra macerie post sovietiche”.

Incredibilmente, so molto poco sull’argomento.

Inizio a leggere, e mi appassiono all’istante.

Memorie oltre Cortina, pop brutalista, recupero new wave, ritmica marziale, mondo synth, shoegaze bielorusso.

Soprattutto shoegaze bielorusso.

Ascolto qualcosa, mi segno a pennarello sul notes (sì, faccio questo genere di cose) un paio di nomi di canzoni.

Poi all’improvviso mi accorgo che sono le 05: 38.

C’è già un po’di luce. Immagino l’alba sia vicina e io sono qui, tutto eccitato per lo shoegaze bielorusso, mentre il resto della mia città dorme sereno e al caldo.

E’ esattamente in momenti come questo che ho la precisa conferma di essere un disadattato totale.

Molchat Doma “Tancevat”

https://www.youtube.com/watch?v=ChFzxuOn1KY

molchat-doma-photo-23

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questo non è un Backdoor Antivirus 19: Paolo Spaccamonti

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Diciamocelo, molti live in streaming sono maledettamente noiosi.

Un surrogato dell’esperienza live, com’è inevitabile, ma anche sciatti, statici, poco curati.

Questo, invece, è una meraviglia.

Per la cornice e, ancor di più per la musica

Paolo Spaccamonti PLAYS Museo Nazionale del Risorgimento (un film sonoro diretto da Fabio Bobbio)

https://www.youtube.com/watch?v=aLGlKXy_cuk

spaccamonti-risorgimento

Paolo è un amico, ma soprattutto un musicista sopraffino. Ho avuto l’onore di averlo con me durante i reading del mio primo libro. Ha nobilitato con la sua chitarra le mie battute da cialtrone, andavamo in giro e ridevamo, compravamo cazzate agli autogrill, parlavamo di dischi fino all’alba mentre guidavo nella direzione sbagliata. Miracolosamente, non ci siamo mai persi del tutto, noi che siamo due disadattati senza il minimo senso dell’orientamento. Siamo stati sul palco del MI AMI, mi ha fatto sentire una rockstar ed è stato un privilegio farlo collaborare con Emidio Clementi. Amo i suoi dischi. Il risvolto negativo di tutto questo è che non potrò mai più recensirlo, non mi sarà ancora concesso di spiegare a nessuno quanto sia bravo. Siamo troppo “vicini”.

Ma qui è diverso. E allora non perdetevi questa esibizione in un luogo che è Storia, ma anche storia privata di Paolo e, di riflesso, di Backdoor, un luogo dove tutti lo hanno sempre apprezzato.

Note meravigliose in luoghi splendidi. Torino al suo meglio.

Ci meritiamo un po’ di bellezza.

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questo non è un Backdoor Antivirus 18: Quello che non ti dicono

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Sono amico di Mario Calabresi e ho avuto la fortuna di collaborare con lui come “ospite musicale” durante le dirette facebook (Casabresi) nello scorso lockdown.

Già all’epoca stava lavorando al nuovo libro, “Quello che non ti dicono” (Mondadori), che ormai è disponibile da un mese.

quello-che-non-ti-dicono

Passare del tempo con Mario Calabresi è il modo migliore per comprendere il mestiere di giornalista. O meglio, per apprezzarne l’istinto innato. Per capire come ogni dettaglio, qualsiasi appiglio per una storia vada colto, esplorato, approfondito. Ovunque e con chiunque.

“Quello che non ti dicono” è un bellissimo libro anche per questo. Una storia vera, ma sepolta o fortemente dimenticata. Quella di Carlo Saronio, figlio della altissima borghesia milanese rapito e ucciso (per errore?) da militanti di estrema sinistra verso i quali lui stesso si era avvicinato, nella ricerca disperata e miope di un mondo migliore. O forse di un se stesso differente.

Siamo a metà degli anni 70 e quel mondo, per molti versi ormai lontano ere geologiche da noi, viene raccontato magistralmente (uno stile “slowhand”, quello di Calabresi), con la struttura di una grande inchiesta condotta dall’autore (e chiesta espressamente dalla figlia di Carlo Saronio, Marta, oggi quarantaquattrenne), ma anche con il respiro umano di chi, si immagina, abbia dovuto fare nuovamente i conti con le ferite personali prodotte da quel decennio.

Ma, ripeto, “Quello che non ti dicono” è soprattutto una grande storia, narrata con un ritmo incessante. A chi spero lo leggerà, il compito di eventuali giudizi su cattivi maestri, velleità e ombre.

Sullo sfondo, un’Italia dilaniata e un decennio in continua e aspra trasformazione. Anche musicale.

E, anche di questo, discuteremo stasera insieme, dalla 19,00, qui

—-https://www.facebook.com/MarioCalabresiOfficial/—-

e sui canali Twitter e YouTube di Mario Calabresi

il Rock “classico” dei Led Zeppelin e dei Pink Floyd, l’avvento della disco music, il punk alle porte, “Anima Latina” di Battisti, ma anche “Profondo Rosso” e “Yuppi Du” di Celentano.

Sono andato a guardarmi le classifiche del 1975, anno cruciale per la narrazione, e ho scoperto che spiccavano due canzoni “telefoniche”.

“Piange il telefono” di Domenico Modugno, strappalacrime invereconda dove un uomo separato chiama la figlia, ignara di chi ci sia dall’altra parte, solo per poterle parlare (la bimba disgraziata era Francesca Guadagno, in seguito doppiatrice di Heidi e Mariangela Fantozzi).

Ma soprattutto “Buonasera Dottore” di Claudia Mori, telefonata tra un’amante e il suo oggetto dei desideri, costretto a dissimularsi, perché in presenza della moglie. Testo di Paolo Limiti, musica di Shel Shapiro e orchestrazione di Detto Mariano (sì, quello di “Amore Tossico”).

Eccola, vogliate gradire.

https://www.youtube.com/watch?v=wmod3ybPy0I

buonasera-dottore

Comprate dischi anni 70

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questo non è un Backdoor Antivirus 17: Saturday Sun

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Sì, lo so, oggi è domenica. E non c’è manco il sole.

Ma ieri ero in negozio, chiuso e vuoto, e mi è venuta una botta di malinconia a pensare com’è abitualmente di sabato, a quell’ora.

A chi c’è di solito.

Quindi, come sempre quando sono triste, ho messo un disco bello e piuttosto triste.

saturday-sun

L’ho fatto girare e ho aspettato la fine, che arriva con

Saturday Sun

https://www.youtube.com/watch?v=h5G242IBygM

poi l’ho tolto dal piatto e ho chiuso.

Fine della storia.

 

 

 

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questo non è un Backdoor Antivirus 16: the last show

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Fa un po’ pensionato sulla panchina, ma la domanda è questa (magari immaginate di dare una botta col gomito al vostro interlocutore):

“Dì un po’, ma tu te lo ricordi l’ultimo concerto che hai visto?”.

Triste, bisogna pensarci un attimo, perché non è affatto immediato ricordarsi l’ultima volta che abbiamo assistito a un concerto. Magari in un club piccolo, con una birra in mano, attaccati uno all’altro e tutti sputazzanti per sovrastare gli amplificatori e poter domandare cose tipo “Ma questa è una cover dei Pylon o sbaglio??!!”.

Bei tempi.

Ma prima di affogare nella malinconia e nel rimpianto, facciamo un rito propiziatorio collettivo.

Scriveteci (backdoor.torino@libero.it) e diteci l’ultimo concerto al quale eravate presenti. Con due righe di commento o anche solo il nome della band.

Magari funziona, magari ritorneremo a sputazzare. Magari era davvero una cover dei Pylon.

In ogni caso, ecco il mio (ok, prima di entrare in Zona Rossa ho visto anche Alessandro Baronciani e i suoi ospiti al Circolo della Musica di Rivoli, musiche, parole e illustrazioni per “Quando tutto diventò blu”)

Smile 22 gennaio 2020, Blah Blah, Torino

Le “miei” condizioni ideali. Band esordiente, grande attesa e pari curiosità. Tutto superiore alle mie già alte aspettative.

Dovendo dire (spiegare), echi di R.E.M., Smiths, Wedding Present, nessuna cover dei Pylon, ma una (grandissima, dalla ottima cassetta tributo  “From Turin to Austin”) di Daniel Johnston, “Life In Vain”.  Potenti e pop (con quella chitarra che per noi significa indie rock che significa quell’indie rock). Li ho adorati subito. Avrei voluto che suonassero il triplo e sono uscito bello goduto, certo che li avrei rivisti prestissimo.

https://www.youtube.com/watch?v=R7ayALwv9i8

smile

Purtroppo nel frattempo il mondo è crollato, ma sappiate che loro hanno un disco in uscita per il 2021.

Quindi non arrendiamoci e predisponiamoci al meglio. Magari arriverà.

from-t-to-a

 

comprate From Turin To Austin e probabili cover dei Pylon

(https://www.youtube.com/watch?v=atAxTsCxMcU)

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questo non è un Backdoor Antivirus 14: io non vado da nessuna parte

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Per la serie Grandi Ospiti, ecco uno sfavillante contributo del Direttore (aka Mauro Fenoglio), nostro amico, colonna portante backdooriana e stimata firma di Rumore.

Pregevole e raffinato. Vogliate gradire.

Io non vado da nessuna parte

di Mauro Fenoglio

nowhere

“Tu non vai da nessuna parte”.

È diventato un mantra, in questo gaio tempo pandemico.

Che poi non è che te lo impongono col fucile, come se fossi un cittadino di Wuhan tirato su a brodo e pangolino. Ti prendono a sberle a forza di dpcm (acronimo che può essere anche declinato come risposta ai decreti. Urlando, mentre si volge lo sguardo in alto verso una serie di divinità incuranti del nostro destino).

Oppure, se vivi nel sud est degli Stati Uniti come me, te lo dicono senza dirtelo. Mettendoti paletti strategici. Puoi uscire, fare i tuoi giri a piedi (sempre e inesorabilmente lo stesso giro, da marzo) ma se provi a prendere un aereo per una destinazione oltre oceanica, non è detto che ti permettano di ritornare, in un trionfo di cavilli e permessi mai sufficienti. Puoi andare in un ristorante (che non si sognano di chiudere) e a tuo rischio e pericolo, dare il tuo personale benvenuto al virus. Insomma, ti puoi muovere dove ti dicono gli altri (e andare dove non ti frega nulla), ma non dove vuoi tu.

E allora non puoi che dirti, sconfitto: “Io non vado da nessuna parte”, mentre affondi sul divano, testando il limite della sua resistenza nel tempo, dopo la quarta ora ininterrotta di televisione.

Eppure, quando il tempo (il tuo) era ancora un concetto che aveva un suo significato e non si limitava a giri di lancette sempre uguali, “non andare da nessuna parte” poteva essere una cosa meravigliosa. Anzi, è stata spesso proprio la musica che “non va da nessuna parte” a farti sentire vivo e unico.

Ultimamente, magari in fondo ad una giornata senza possibilità di un domani che provi ad essere diverso da ieri, mi è capitato di ripensare a Thirteen dei Teenage Fanclub e a come fosse meraviglioso dire “io non vado da nessuna parte” solo qualche tempo fa.

thirteen

Inutile spiegare chi siano i Teenage Fanclub qui dentro. Scozzesi, ma più americani che britannici. Baciati dal titolo di “più grande band del mondo” da Kurt Cobain in persona. Fra furia giovane, meraviglioso cazzeggio e innocenza, nell’anno di grazia (assoluta) 1991, col loro miracoloso Bandwagonesque.

Ecco, Thirteen arriva due anni dopo il capolavoro.Norman, Gerald, Raymond e Brendan decidono che è arrivato il momento di non andare da nessuna parte. Un disco che guarda dritto alla loro fonte d’ispirazione primigenia, quei Big Star che già negli anni 70 ebbero i loro guai nel far capire il loro verbo da meravigliosi sfigati. Un disco che non si preoccupa troppo di essere fuori tempo massimo (rispetto ai trend dell’epoca). E infatti Thirteen all’uscita riceve riscontri che vanno dal tiepido all’apertamente negativo. Solo col tempo i fan più verticali lo riabiliteranno (a volte anche con gli interessi).

Ma qual è il segreto aureo delle sue canzoni?

  1. Partire con frasi melodiche che non si preoccupano minimamente della sintesi (meglio se lievemente dissonanti, anche nella loro apparente gaiezza)
  2. Unirci testi che si guardano addosso, magari ripetendo la stessa frase ad libitum
  3. Scegliere la chitarra come motore per combinare 1 e 2 in un flusso da cui, a forza di ascoltarlo, si finisce per non volerne uscire più. Avendo coscienza di eleggere l’’assolo fine a sé stesso come veicolo, appunto, fuori tempo massimo (è l’inizio dei 90, baby. A te piace il power pop e gli anni ’70, ma noi abbiamo lo shoegaze)
  4. E niente lezioni accademiche sull’arte della ripetizione, tipo i nastri disintegrati di Basinski o le vertigini dell’’ascetismo elettronico degli Autechre. Qui si parla di assoli di chitarra, spesso pigri e senza pretese di cambiare l’ordine naturale delle grandi cose che governano il mondo.

Thirteen è un po’ tutto questo, nella maniera meno cosmeticamente adatta al tempo della sua pubblicazione, senza il supporto dell’appeal fresco dello straordinario predecessore.

Ascoltatevi la coda pigra, tutta flauto e archi, di Hang On (sberleffo al brit pop poco prima del brit pop), le 10 ripetizioni 10 di “I’m In Love With You” di Norman 3. O lasciatevi convincere che “When I See You Cry I Think Tears Are Cool”, come canta Gerald Love nella tenera Tears Are Cool, prima che parta l’ennesimo assolo che non ha davvero voglia di piantarla lì, se non quando rientra la ritmica, è l’unica frase che vi è rimasta in tasca, quando tutto sembra finire. Tutta roba che per il 1993 era già ben più che passata di moda, ma su cui ritornare, e ritornare, e ritornare, è stato un piacere e un sollievo per tutti questi anni.

Almeno per me, che ve lo sto a raccontare qui dentro.

https://www.youtube.com/watch?v=omeoWJ8SHrY

Certo, parliamo di un esempio fra tanti.

Altri?

Il premio del “io non vado da nessuna parte” è sicuramente nella coda infinita di Cortez The Killer di Neil Young (uno che del non andare da nessuna parte ha fatto una ragione di vita musicale). Che poi, Doug Martsch dei Built To Spill ha coverizzato, trasformandola in un meraviglioso challenge da una ventina di minuti, trionfo assoluto del non andare da nessuna parte.

cortezb-t-s-live

https://www.youtube.com/watch?v=uX9k9aoX6gk

https://www.youtube.com/watch?v=TNOvqFISxIc

E cosa vogliamo dire di Mr. J Mascis e di cosa sia per lui il non andare da nessuna parte, a colpi di chitarra che si guarda allo specchio? Senza andare troppo lontano, quante volte vi viene voglia di riascoltare Get Me dei suoi Dinosaur JR e sperare che non finisca mai? Che ci sia l’ennesimo assolo di chitarra ad attenderci al minuto 9?

j

https://www.youtube.com/watch?v=ybExfDHg1i0

Se poi vogliamo parlare di assoli circolari, allora rivolgiamoci a Mark Kozelek (sempre che ne sentiamo ancora parlare, dopo la sua scivolata in territori presidiati dal tribunale Me Too). Prima che la sentenza sia certificata, facciamoci un giro dentro all’ultimo disco dei suoi Red House Painters (Old Ramon del 2001) e mettiamoci al volante nella notte di Los Angeles, fra le sciabordate di Cruiser. Oppure perdiamoci nelle calme acque scure del fiume padre, fra le radici legnose di Carry Me Ohio (da Ghost Of The Great Highway dei suoi SunKil Moon, 2003) o scopritevi affascinati dalla geografia e la toponomastica, fra gli arpeggi circolari di Third And Seneca (da AdmiralFellPromisesdel 2010). Canzoni che iniziano sapendo già che non finiranno mai, continuano inesorabili nella loro incapacità di evolvere, sapendo di avervi preso per il collo per convincervi a non abbandonarle più.

oldramon

https://www.youtube.com/watch?v=O6qKGijRAeA

E allora si che era dolce dirsi “io non vado da nessuna parte” e sapere che quelle canzoni sarebbero rimaste con me per sempre. Le avresti abbandonate per un po’ con la scusa di rimetterti al pari col presente, per poi ritornarci dentro quando quel presente si faceva meno accogliente. E ricominciare da lì, esattamente dove le avevi lasciate.

Adesso, che il nostro “non vado da nessuna parte” e diventata asettica dannazione quotidiana, sono tornato su Thirteen. Era qualche anno che non lo facevo. Capita sempre così con i dischi dei Teenage Fanclub. Ho lasciato che Hang On si faldasse fra il flauto e violini, sono passato nel cortile al crepuscolo di 120 Mins, attraversato le strade finto blue(s) di Escher, accarezzato una volta ancoraTears Are Cool…..

…..e alla fine mi son detto “Ma io, davvero, dove cazzo devo andare…”.

Ora vi lascio, che stanno iniziando gli otto minuti di Gene Clark (pezzo conclusivo e riassuntivo di Thirteen)

https://www.youtube.com/watch?v=PzKFH-m9NGU

e io so (perché lo so) che dopo le sciabolate di chitarra a zampa d’elefante, allineata lungo sulle note di Cortez The Killer, a 3 minuti e 40 secondi circa, come sempre, arriva la voce di Gerald Love a rassicurarmi che almeno fino a qui siamo arrivati indenni.

Domani si vedrà.

“No matter what you do it all returns to you
No matter what you say you’ll hear it all someday.”

tf-ts

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questo non è un Backdoor Antivirus 13: era meglio il demo (del lockdown)

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So che lo sapete, ma il (la, forse sarebbe più corretto) demo è, nella vulgata musicale, la cassetta (o cd) con cui un artista/band esordiva, sperando di farsi conoscere o trovare un’etichetta che lo pubblicasse. Demonstration tape, appunto. Alcuni sono diventati leggendari, ma soltanto alcuni. Nella maggior parte si trattava di porcherie totali.

Tra i tanti snobismo tipici del “nostro mondo”, uno dei migliori è accogliere l’esordio di un artista/band celebrato fin da subito con un annoiato “era meglio il demo”. Già. Il che sottointende: mi aspettavo di più – l’ho scoperto io e ora mi ha rotto le palle – i suoni sono da major (il concetto di major, nel 2020) – sono duro e puro (io e soltanto io).

Reso l’idea?

Quindi:

“Ah, fai ancora questa cosa dell’Antivirus?”

“Sì, per me è una specie di disciplina quotidiana. A diversi clienti e amici che lo ricevono fa piacere, è un modo per rimanere in contatto con tutti e poi dà visibilità al negozio. Magari qualcuno compra un disco o fa un ordine. Essendo chiusi, aiuta”

“Non sapevo foste chiusi. Come mai?”

“E bè, Zona Rossa, lockdown, sai com’è…”

“Sì, ma non è come il primo lockdown, quello sì che era un vero lockdown, non come questo. Nessuno in giro, la gente tappata in casa. Anche l’atmosfera era diversa. Ora non si percepisce, per le strade un sacco di persone che si muovono. Non ha senso paragonarli. Io poi, per carità, anche allora ho sempre girato, ma era diverso. Trovavo sempre parcheggio, ci mettevo la metà del tempo ad attraversare la città. Adesso, no. Poi c’era la conferenza stampa delle 18, Burioni, tutta un’altra cosa. Questo non lo chiamerei nemmeno lockdown, dipendesse da me”

Prefab Sprout “Couldn’t Bear To Be Special (Paddy McAloon home demo)”

https://www.youtube.com/watch?v=RhxYU2Iy8ZY

p-mca

comprate Prefab Sprout e versioni demo

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questo non è un Backdoor Antivirus 12: zifio is the new loud

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A metà degli anni 70 partecipai con la mia scuola elementare al Concorso sul risparmio energetico “Omino Sano Omino Blu”.

In classe preparammo un cartellone dove venivano illustrati comportamenti adeguati e indiscutibilmente corretti.

Due i nostri punti di forza.

1-Spegnere sempre la luce dopo aver abbandonato una stanza (per anni venni additato come “Il Sacrestano” per l’applicazione ossessiva di questa pratica virtuosa).

2-Chiudere sempre la porta del frigo (evidentemente negli anni 70 qualcuno la dimenticava spalancata, lasciando marcire fagiolini e Belpaese Galbani. Anni dopo il problema si presentò in forma contraria, l’imperativo divenne per me cercare di aprirla un po’meno quella dannata porta)

A sorpresa, fummo tra i premiati. Non solo, durante una cerimonia di carattere bulgaro in un Palazzetto dello Sport gremito oltremodo, il Sindaco mi consegnò una specie di pergamena cardinalizia e venni intervistato al TG2 edizione serale.

Un picco di popolarità mai più eguagliato.

Poi le cose sono peggiorarono, dal punto di vista ecologico, intendo. Ora abbiamo Greta (grandissima sotto ogni punto di vista, anche per il suo look indie e quello sguardo graphic novel) e io non so se magari il vecchio cartellone di Omino Sano Omino Blu potrebbe servirle, ma quando faccio la mia brava immondizia differenziata ci penso.

Ok, vengo al punto.

Ed è questo: tra le tante campagne di sensibilizzazione sulle tematiche di area ecologica, la mia preferita è senza dubbio questa.

Max Casacci “Oceanbreath”

https://www.youtube.com/watch?v=0n1v2z6mCTQ

max-casacci-silvia-pastore-1

Qui una breve descrizione. “Regia di Marino Captitanio. “Oceanbreath” è il frutto dell’incontro tra il produttore e compositore torinese e Mariasole Bianco, biologa marina nonché presidente della onlus Worldrise. Max Casacci ha infatti utilizzato rumori, ambienti sonori, canti o versi acquatici provenienti da diverse zone marine che sono stati forniti dalla onlus stessa. Manipolando quei suoni, seguendo un preciso filo narrativo, è nata un’opera sonora che dà voce all’oceano”

qui potete approfondire di più

https://worldrise.org/oceanbreath-max-casacci/

Il video è impressionante e la musica potente e scura. Come la Natura stessa, per niente new age campanelli e trilli, ma quasi sempre buia e carica di drones.

“Brano realizzato esclusivamente con i suoni dell’oceano, senza utilizzo di strumenti musicali elettronici o acustici. Da un coro di pesci della barriera corallina australiana, al canto di una balena campionato e trasformato in pianoforte, fino al verso di uno zifio intonato come un immaginario flauto marino. Poi onde, delfini, pesci più comuni, per arrivare ad un finale ritmato sul rumore della rottura dei ghiacciai causata dal riscaldamento globale”

Io sono un grande appassionato di field recordings. Posseggo un nastro di rumori della foresta di Tikal in Guatemala (scimmie urlatrici included), tanto per dare l’idea. Ma lo zifio, devo ammetterlo, mi mancava.

Al che, la domanda che molti di voi si staranno ponendo.

Cazzo è, realmente, uno zifio?

eccolo

zifio

sostanzialmente, lo zifio è un cetaceo, definito un “nuotatore rilassato e tranquillo”. Di faccia, direi che sogghigna, ma non saprei dirvi esattamente perché.

Ora, Max Casacci tra Subsonica, lavori solisti (imminente il suo “Earthponia”) e produzioni (a proposito, eccellente quella di “Scacco Matto” di Lorenzo Senni), non ha bisogno di arricchire il curriculum, ma credo possa comunque tirarsela tranquillamente come “l’uomo che ha campionato uno zifio”.

Buon per lui. E per noi.

E non scordate di spegnere le luci se state abbandonando la camera (sul frigo mi sono arreso, con gli anni).

frigo

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